Quanto è facile parlare!

Parlare di integrazione e di diritti quando ci si riferisce alle comunità rom e sinte non è mai stato un compito facile.

Strade diverse dal continuo accanimento mediatico ci sono, ma bisogna volerle percorrere. “Buone pratiche” sperimentate e consolidate in lunghi anni di impegno di associazioni e amministrazioni “illuminate” dimostrano che l’integrazione è possibile e costa meno del mantenimento dei campi-favelas comunali e delle ricadute sociali dell’emarginazione.

Parlare di integrazione e di diritti quando ci si riferisce alle comunità rom e sinte non è mai stato un compito facile, neppure in momenti in cui media e politici ostentavano l’intenzione di voler imbastire un confronto serio sulla questione. Fino a qualche tempo fa infatti era possibile distinguere tra coloro che intendono affrontare l’argomento in modo costruttivo, e coloro che ciclicamente se ne servono per distogliere l’attenzione dalla propria incapacità di mantenere le promesse elettorali. Attualmente, invece, programmi di partito e articoli di giornale convergono in un continuo accanimento verso chi vive ai margini della società, parlando per luoghi comuni e stereotipi.

E quando esponenti delle Istituzioni parlano lo stesso linguaggio di potenziali teste calde, seppur con un tono più raffinato, nessuno ha diritto stupirsi di come possano verificarsi aggressioni che restano impunite come quella di Ponticelli, o che peggio vengono premiate, come è avvenuto ad Opera, dove chi ha guidato l’attacco al campo nomadi comunale è diventato Sindaco. Per queste ragioni l’accanimento contro Sinti e Rom ha una matrice politica, e non è semplicisticamente riconducibile ad un generico clima di frustrazione diffusa che esplode in corrispondenza di fatti di cronaca, su cui, concordiamo senza esitazioni, è doveroso che Magistratura e Forze dell’Ordine intervengano tempestivamente.

Quanto è facile parlare di espulsioni di massa, di rilevazione del dna, di chiusura dei campi nomadi comunali, senza poi spiegare che tali misure non sono fattibili, perché la stragrande maggioranza dei Rom e dei Sinti sono cittadini italiani e che il nostro Paese è vincolato a trattati internazionali che ne impedirebbero l’attuazione!

Altre strade ci sono, ma bisogna volerle percorrere. Le cosiddette “buone pratiche” sperimentate e consolidate in lunghi anni di impegno di Associazioni e Amministrazioni “illuminate”, dimostrano che l’integrazione è possibile, e costa anche meno del mantenimento dei campi-favelas comunali e delle ricadute sociali dell’emarginazione.

L’Opera Nomadi in dieci anni di progetto di mediazione tra scuola e famiglia ha praticamente debellato l’evasione scolastica, portando al conseguimento della scuola dell’obbligo la prima generazione di Sinti e Rom in tutto il territorio di Padova e di alcuni comuni limitrofi, mentre nel resto della regione i dati sull’abbandono restano ai livelli di trent’anni fa. Alcuni ragazzi frequentano anche le scuole superiori e cominciano ad affacciarsi sul mondo del lavoro con competenze e prospettive tutte nuove.

Il secondo nodo da sciogliere per l’affrancamento di sinti e rom da secoli di discriminazioni e persecuzioni, è il lavoro, intervenendo a vari livelli. A livello legislativo portiamo avanti la proposta di comprendere rom e sinti nelle categorie svantaggiate delle cooperative di utilità sociale, che garantirebbe un inserimento “protetto” anche per coloro che non hanno maturato alcuna esperienza. Dal punto di vista burocratico e fiscale andrebbero semplificate e alleggerite le procedure e le imposte sullo spettacolo viaggiante, che stanno facendo lentamente morire il tradizionale mestiere delle giostre e dei circhi.

A livello locale inoltre le Amministrazioni dovrebbero agevolare le molte iniziative imprenditoriali anch’esse legate ai mestieri tradizionali, ad esempio favorendo la nascita e l’avviamento di piccole cooperative di recupero e riciclaggio di materiale metallico, anche tramite la sottoscrizione di convenzioni con le aziende di smaltimento rifiuti.

A Padova il tema della formazione lavoro è stato affrontato congiuntamente a quello della chiusura di uno dei campi comunali, attraverso il progetto di autocostruzione “Villaggio della Speranza”. Dopo un corso di formazione teorico pratico i residenti saranno direttamente assunti come apprendisti dalla cooperativa incaricata dei lavori, e costruiranno i propri alloggi, cedendo parte dello stipendio per co-finanziarne la realizzazione. L’originalità del progetto va oltre alla sistemazione di undici nuclei storici padovani e alla formazione professionale e risiede nel coinvolgimento dei sinti stessi in tutte le sue fasi, dal titolo, alla pianificazione, alla messa in opera.

Chiudere i campi comunali, che rispondono ad una bieca logica di controllo sociale, è un dovere morale per un Paese che ama, non sempre a ragione, definirsi europeo, ma le alternative ad essi vanno concordate con i diretti interessati caso per caso. Se i rom dell’est infatti, per tradizione storica vogliono vivere in casa, molti gruppi di rom italiani e di sinti aspirano a sistemarsi in piccoli terreni privati, detti microaree, in cui vivere in roulotte con la propria famiglia allargata. Di queste realtà ne esistono a Padova e dintorni circa una ventina, integrate nel tessuto urbano, in cui le persone gestiscono la propria vita in modo del tutto autonomo, lontane dall’assistenzialismo ipocrita che vuole mantenere in vita i campi ghetto che riempiono le bocche dei troppi giornalisti e politici che non vi sono mai entrati.

Marco Tombolani – Opera Nomadi di Padova

(Tratto da Ecopolis, newsletter socio-ambientale di Legambiente Padova)

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