Presenze straniere in carcere

Che la realtà carceraria in Italia non sia delle più rosee lo dimostra l’ultimo indulto deciso dal governo Prodi. Processi interminabili, sovraffollamento, mancanza di iniziative che rendano costruttivo il periodo di detenzione sono solo alcuni dei problemi attuali. E per gli stranieri la situazione si fa ancora più drammatica.
Che la realtà carceraria in Italia non sia delle più rosee lo dimostra l’ultimo indulto deciso dal governo Prodi. Processi interminabili, sovraffollamento, mancanza di iniziative che rendano costruttivo il periodo di detenzione sono solo alcuni dei problemi attuali. E per gli stranieri la situazione si fa ancora più drammatica.

Ma chi sono i detenuti stranieri in Italia? Un’indagine dell’ISTAT del 2006, dal titolo “Stranieri e carcere”, ce ne offre uno scorcio.

Anzitutto, la detenzione per gli stranieri diventa spesso l’unica soluzione possibile: gli stranieri che commettono reati sono in larga misura clandestini. Non disponendo di documenti, magari non hanno una fissa dimora, o sono stati più volte identificati con generalità diverse. Queste circostanze rendono a volte materialmente impossibile, a volte non opportuna (per il rischio di fuga) la concessione degli arresti domiciliari, cosa che avverrebbe invece se l’accusato fosse italiano.
Ecco perchè mentre per gli italiani si registra una presenza dominante in carcere di condannati definitivi (62%) sugli imputati (35%), la situazione degli stranieri è all’opposto, essendo per la maggioranza imputati (59%) e per il 41% condannati definitivi.

Per quanto riguarda le pene, in quelle di durata inferiore a 6 mesi la percentuale degli stranieri è analoga a quella degli italiani, mentre per le pene più elevate (al di sopra dei 10 anni), gli stranieri sono assai meno numerosi. La media per gli stranieri è una detenzione di 3-5 anni, mentre per gli italiani si va dai 5 ai 10 anni.
I reati variano, anche se più della metà degli stranieri (55%) risulta avere a suo carico reati previsti dalla Legge sugli stupefacenti.

L’ISTAT analizza poi i cosiddetti "eventi critici", ossia “gli atti autoaggressivi (suicidi, tentativi di suicidio e atti di autolesionismo), quelli eteroaggressivi (ferimenti, omicidi), i procurati incendi, le manifestazioni di protesta e le evasioni (dagli istituti o per mancato rientro), nonché i decessi per cause naturali.”

Ne emerge che gli atti di autolesionismo sono, tra gli atti aggressivi, quelli che si presentano con maggiore frequenza nella popolazione carceraria adulta. Nel 2001 l’incidenza di tali eventi è stata del 114 per mille. Gli atti di autolesionismo in carcere hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita. Le motivazioni sono varie: esasperazione, disagio (che si acuisce in condizioni di sovraffollamento), impatto con la natura dura e spesso violenta del carcere, insofferenza per le lentezze burocratiche, convinzione che i propri diritti non siano rispettati, voglia di uscire anche per pochi giorni, anche solo per ricevere delle cure mediche.

Tra gli stranieri gli atti di autolesionismo risultano essere il doppio rispetto agli italiani, il che testimonia un maggior disagio del detenuto straniero: alle motivazioni di cui sopra se ne aggiungono infatti di nuove. In primis, l’assenza nella maggior parte dei casi di una famiglia o di amici che possano assistere il detenuto, sia dal punto di vista affettivo che da quello materiale. Altrettanto ovvia e rilevante è la maggiore difficoltà rispetto agli italiani, per motivi linguistici, di comprendere e adeguarsi ai meccanismi rigidi del carcere.

Si entra quindi in un circolo vizioso, che rende la detenzione per gli stranieri non solo l’unica soluzione possibile, anche in caso di reati che se compiuti da un italiano andrebbero risolti diversamente, ma addirittura ne danno un esito controproducente. Si è ben lontani infatti da un effetto “recupero” della pena, che dovrebbe tendere a “rieducare” il colpevole alla vita sociale. Il detenuto, ancor più se straniero, risulta emarginato e allontanato dalla società in maniera irreversibile.

Fortunatamente esistono le eccezioni: enti e associazioni che si occupano dell’inserimento lavorativo degli ex detenuti, che danno loro la possibilità di fare formazione in carcere, o addirittura di dialogare con il mondo esterno, come fa per esempio l’associazione Granello di Senape attraverso la rivista Ristretti (www.ristretti.it).

Elisa Gamba

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