Giovani e chiesa: il paradigma dell’alleanza

«Già lo sai», risponderebbero loro, i giovani, facendo uso di quell’informale linguaggio urban style, nel crinale tra lo snob e il provocatorio, fatto di slang per niente stereotipati eppure chiari e incisivi. «Già lo sai» la risposta dei giovani con i quali, e a riguardo dei quali, si è attivato il dialogo durante il secondo incontro del seminario “Serve la chiesa?” promosso dal ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto, svoltosi giovedì 26 ottobre 2023.
In effetti, già lo sapevamo-intuivamo, di certo non serviva un ulteriore dibattito, ma come la goccia che pian piano scava la roccia (sic!), i giovani che, a modo loro, sono appassionati, incuriositi, fosse anche irretiti, continuano a ripeterlo alla chiesa. I paradigmi si delineano sempre più chiari proprio come il lavorio della roccia nel dispiegarsi del tempo: prima grezza ma, poi, la roccia viene lisciata dalla goccia che, nella sua apparente debolezza, nasconde in sé la forza di cambiare la forma della roccia.
Si tratta di forma: Serve la chiesa? Risposta ovvia, confermata anche dai numerosi giovani presenti alla serata, dai non pochi attivi durante le molteplici esperienze sinodali poste in essere in varie diocesi, non di meno nella chiesa universale. Loro, i giovani, lo stanno come gridando sottovoce e lo chiedono con afflato: la chiesa serve, ne abbiamo bisogno! Di converso la stessa chiesa, ribadito con forza anche dalle relatrici, ha bisogno dei giovani: «abbiamo bisogno di voi!».

Passare dalla critica all’alleanza

Patrizia Cazzaro, docente presso la Facoltà teologica del Triveneto, nella sua ouverture ha mosso da una serie di accorate questioni formulate dai giovani presenti: diocesi, parrocchie, associazioni, mondi accademici da tempo sono alla ricerca di soluzioni sempre più innovative impegnando una molteplicità di risorse, eppure si fatica così tanto a “tenere i giovani” oltre il tempo della sacramentalizzazione. Ancora: i giovani riconoscono che talune proposte risultano qualitativamente buone, eppure restano spesso confinate all’interno dei “recinti” delle parrocchie, delle associazioni, delle diocesi, perché si fatica a essere fluidi, relazionali? Infine, perché ai giovani viene chiesto spesso di essere “usati” al fine di “fare delle cose”, invece che, primariamente, di diventare quello che possono e devono essere?

Serve una chiesa così, che si presenta in questa forma ai giovani? Queste modalità di disporsi non sono gradite, ma non lo sono da ambo le parti. La postura delle comunità vive l’abbandono dei giovani con significazioni che vanno dalla sfiducia alla mortificazione; di converso, dalla parte dei giovani, si comprende che esso, l’abbandono, è un passaggio che dichiara la presa di distanza da forme che altri adulti hanno realizzato, un passaggio necessario per acquistare identità anche nella fede e nella comunità cristiana, una discontinuità oltre che inevitabile anche indispensabile. Inquadrata nel campo semantico la questione, Cazzaro prosegue evidenziando che l’abbandono dei giovani non traduce direttamente l’effetto di un fallimento causato dalla chiesa, piuttosto si rende necessario prendere in causa e custodire la drammatica bellezza della libertà di scelta, accogliendo anche l’allontanamento come un tema da custodire per costruire una nuova forma ecclesiale. Certo, durate il tempo dell’iniziazione cristiana tutto è “obbligatorio” e istituzionale; fino a un recente passato, per la generazione degli odierni adulti, credere era un dato sociale sostento dalla stessa cultura consono alla grammatica della vita ordinaria di quasi tutti; oggi questo sfondo si è destrutturato e, al posto di esso, si staglia la libertà: il valore della scelta. Ne consegue che programmi e organizzazione, eventi e proposte, offerti da una comunità pur matura, pur di qualità, vengono recepiti nella forma obbligante di qualcosa prodotto da altri.

Cazzaro rileva che le comunità hanno necessità di darsi tempi di ascolto, non tanto di sé stesse e dei propri fallimenti o presunti tali, piuttosto dei giovani, attivando dispositivi e registri atti ad ascoltare, capaci di accogliere anche la libertà di abbandonare, finalizzati ad accettare di essere minoranza non solo numerica ma anche semantica, ovvero minoranza in mezzo ad altre agenzie o forme culturali molto più pervasive. Cazzaro rileva che persistono comunità abilitate a generare i giovani alla fede, ma al tempo stesso non si hanno strumenti adeguati. Esse non riescono a porsi domande del tipo: «quale immagine di Dio può essere significativa per i giovani?»; «quali esperienze e legami non vanno perduti al fine di sostenere la fede?». Per attuare ciò, Cazzaro suggerisce una differente postura: una strada da seguire è il passaggio dalla critica all’alleanza. Questo spostamento evince reciprocità di rapporto e fedeltà. Ma ciò, concretamente, cosa può voler dire? La docente accenna ad alcuni esempi: gli adulti di una comunità considerino i giovani non solo oggetto di un’azione ma soggetto, popolo di Dio, insieme e paritetici, quindi accoglienti degli apporti e dei cambiamenti che inevitabilmente i giovani portano con sé. Per i giovani, passare al paradigma dell’alleanza potrebbe significare non fermarsi alla critica di com’è oggi la comunità dei credenti ai suoi differenti livelli, per andare al desiderio di come pensare e vivere oggi la fede e la vita in comunità.

Noi-chiesa

Si è inserita, incalzando con continuità, Assunta Steccanella, direttrice del ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto. La batteria di domande a lei riservata riguardava più direttamente i temi dell’annuncio: la chiesa come “aggancia” un giovane-adulto? Si hanno spesso delle buone parole, i contenuti non mancano, ma non usiamo quelle giuste, la forma non è azzeccata. Abituata a pensare che il contenuto, l’organizzazione, un principio saldo, siano determinanti la forma, la chiesa parrebbe assistere, non senza patire, a una sorta di rivoluzione copernicana: la forma è determinante i contenuti, la forma della chiesa, la forma che la goccia dà alla pietra “ingessata” della chiesa eppure non refrattaria.

Steccanella rileva subito la complessità del reale sottesa alle questioni sollevate, anch’ella conviene sull’inadeguatezza di una forma che si riduca a rinnovare le strategie e gli strumenti. La docente imposta la questione anzitutto ponendo al centro il «noi-chiesa»: non esistono i giovani e la chiesa, non esistono i giovani e la parrocchia/istituzione, come non esistono la gerarchia, il ministero ordinato e le laiche/i laici. Se la comunità credente ha una possibilità è quella di concepirsi e sentirsi «noi-chiesa», in perfetta sintonia con la categoria conciliare di «popolo di Dio». Da questa considerazione, che ricolloca al centro concetti tanto chiari quanto di difficile attuazione nella loro radicale integralità, deriva che i giovani non sono l’oggetto, i destinatari di un’azione pastorale e di un’esperienza di fede che qualcun altro ha pensato e progettato altrove; piuttosto essi sono a pieno titolo soggetto, appunto, nel «noi-chiesa». A questo serve la chiesa: a custodire la sua riserva di capacità di mutamento, a implementare la propria forza che sta nell’accettazione di lasciarsi modificare dall’interno, un mutamento di forma che viene dal di dentro. È pure risaputo che mutare forma, come per il bruco che diviene farfalla, non è esente dal patire sofferenze. Che siano i giovani la nuova forma d’inculturazione, la forma per mezzo della quale ci viene chiesto oggi di mediare il contenuto della rivelazione?

In effetti, già lo sapevamo, già l’avevamo intuito, eppure abbiamo bisogno ancora di risentircelo dire, di fare strada insieme per perlustrare esperienze che mostrino com’è possibile fare ciò. Al prossimo appuntamento, giovedì 23 novembre, i giovani interpellano i temi morali e della liturgia, saranno presenti mons. Dianin Gianpaolo e Giorgio Bonaccorso OSB.

Lorenzo Voltolin
docente di Teologia sistematica
Facoltà teologica del Triveneto

Foto da Pexels

(Facoltà Teologica del Triveneto)