È abbastanza agevole rilevare che tra lo scatenamento delle narrazioni e delle opinioni di questo anno pandemico, ve ne sono alcune che si sono imposte tra tutte, e non sempre per qualità quanto piuttosto per quantità.
La prima che ha decisamente occupato la scena è la lettura psicologica, non di rado con derive psicologistiche e fortemente psicopatologicizzanti. Per certi versi ha segnato il trionfo della ‘cultura terapeutica’ o, meglio, ha svelato quanto l’ethos dominante sia pervaso ormai da questa cultura che si segnala per la tendenza a esasperare l’aspetto malato-patologico delle persone e delle situazioni, non solo nell’ambito psichico ma nei contesti più diversi della vita, come le relazioni affettive, l’educazione, la politica. Il paradigma di queste letture è quello vittimario dove tutto è ingabbiato nell’emotivo e porta il segno del trauma. La continua rilettura della pandemia in termini emotivi, di fatto, ha favorito un misconoscimento delle altre regioni esistenziali e delle altre ragioni legate alla pandemia. Fra tutte: il registro psicopatologico ha silenziato, ad esempio, quello pedagogico e ha trasformato insegnanti, educatori, genitori… in apprendisti terapeuti.
La seconda narrazione che si è imposta, anche se all’inizio pareva messa all’angolo, è stata chiaramente quella economica. Anche in questo caso, con derive economicistiche che pensavamo morte. Alla fine è emersa la vera posta in gioco: o la borsa o la vita. Diversi indicatori oggettivi ci dicono che la borsa ha avuto la meglio sulle vite. E in questi giorni è di questo che si sta parlando: riaprire e togliere il ‘coprifuoco’ significa che l’imperativo economico prevale su tutto. Ormai dovrebbe esserci chiaro che ci siamo creati una organizzazione della vita in cui della vita vera rimane molto poco.
La terza narrazione è stata quella che ha continuato a descrivere la pandemia (che però alcuni oggi chiamano ‘sindemia’, tale è la sua articolazione e connessione) alla stregua di una catastrofe naturale: qualcosa che non si può prevedere né affrontare predisponendo adeguate misure preventive. Come oggi sappiamo, in questa pandemia non c’è niente della catastrofe naturale, così come sappiamo che da diverse fonti erano giunte delle previsioni circa il suo presentarsi. Il punto è che dipingendola come una catastrofe naturale si è ottenuto il risultato di misconoscere e accantonare le nostre responsabilità oggettive.
Quanto al linguaggio, si può rilevare che i due codici predominanti sono oscillati tra quello della guerra e quello della cultura terapeutica. Insieme hanno avuto l’effetto complessivo di distogliere l’attenzione dal nucleo eco-antropologico di questa pandemia. Così come le vistose contraddizioni etiche esplose in questa condizione, sono finite per l’ennesima volta nel cielo dei ‘valori’ che di fronte alla ‘realtà’ si devono arrendere e spegnere. È difficile pronosticare un futuro agevole per l’educazione etica e morale, avendo alle spalle questo tempo di pandemia.
Uno sguardo antropologico
Si è sentita e si sente l’assenza di una interpretazione antropologica. Forse può stimolare una riflessione in questa direzione la categoria di “apocalissi culturale” di Ernesto De Martino. In altre parole: interpretare la pandemia non certo come un ‘tempo sospeso’ ma come un tempo drammaticamente intenso in cui ci siamo trovati ad affrontare la perdita dei riferimenti consueti senza trovare di fatto strumenti adeguati per ripristinare un controllo e ricomporre il quadro dei significati (nel senso di Charles Taylor). Stare in questo tempo ha significato entrare nel “vissuto di fine del mondo” in cui ci si sente sprofondare, senza la mediazione assicurata dalle pratiche rituali che consentono di organizzare il caos e attraversare la crisi fino a superarla.
Come ha scritto Alessandra Campo, «a emergere in primo piano nelle apocalissi culturali è dunque il fondo della natura umana, fondo che rivela la possibilità, mai definitivamente espunta, che la nostra presenza possa venir meno, ossia che si possa regredire a uno stadio in cui il mondo appare onniallusivo e prepotente (eccesso di semanticità) oppure stereotipato e meccanico (difetto di semanticità)». Inoltre, proprio nel mezzo, è qui che viene alla luce quello che “ci importa” veramente.
Ora, si tratta di trasformare tutto questo in una domanda: che cosa è venuto alla luce in questa pandemia che ci importa veramente? Cosa ha svelato questa pandemia circa ciò che ci importa veramente? Forse da qui potrebbe iniziare un pensiero certamente critico ed esigente, ma sicuramente in grado di restituirci il frammento di verità che abita in questa pandemia, e che ancora non è stato del tutto liberato.
Lorenzo Biagi
docente di Etica ed educazione
Istituto superiore di Scienze religiose “Giovanni Paolo I”
Belluno-Feltre, Treviso e Vittorio Veneto
Foto da Pixabay