La responsabilità sociale e la sindrome di Robin Hood. Togliere ai ricchi (le imprese) per dare ai poveri (la società)

Una larga parte della nostra società considera la RSI, Responsabilità Sociale d’Impresa, quasi come un "esproprio" che dovrebbe togliere alle imprese il surplus di ricchezza creato grazie alla "licenza di operare" concessa dalla collettività.

Questa visione parte dall’assunto che le aziende sfruttino sempre e comunque i lavoratori e che le stesse creino ricchezza anche quando hanno i conti in rosso o, addirittura, falliscono (in questo caso è l’imprenditore che scappa con la cassa e non già una delle possibili conseguenze del rischio d’impresa!).

Governi, attivisti, ONG, mass media, sono diventati abili nell’attribuire alle aziende la responsabilità delle conseguenze sociali della loro attività. Va però precisato che alcune aziende hanno effettivamente comportamenti riprovevoli agli occhi dell’opinione pubblica, ma non per questo vanno demonizzati la cultura d’impresa e il profitto.

Questo approccio – che potremmo definire "rivendicativo" – fa infatti scattare comportamenti e azioni sicuramente utili per la collettività ma con effetti molto inferiori rispetto alla aspettative. Una responsabilità sociale che parte dalla contrapposizione tra business e società non potrà infatti che essere "generica" e "riparatrice"; mentre invece, se sviluppata in modo strategico e coerente con gli obiettivi e le expertise aziendali, potrebbe portare a risultati significativi e duraturi, sia per le imprese che per la società.

Ma andiamo con ordine e, prima di analizzare gli effetti pratici di questa visione, proviamo a definire la responsabilità sociale.

La responsabilità sociale è la responsabilità che ogni organizzazione si assume per le conseguenze che le proprie decisioni e le proprie azioni hanno, oltre che sul piano economico, anche su quello sociale e ambientale, lungo tutta la catena di creazione del valore. Questa "assunzione di responsabilità" avviene solo in presenza di un comportamento etico e trasparente che deve essere in linea con uno sviluppo sostenibile; che deve tenere conto delle aspettative degli stakeholder; che deve rispettare la legge (sia locale che internazionale); che deve essere condivisa da tutta l’organizzazione e che non si deve limitare a semplici operazioni di charity o di filantropia.

Se le imprese non inseguono profitti a breve termine in maniera truffaldina e non eludono le conseguenze sociali e ambientali delle loro azioni, il "fare affari" dovrebbe pertanto essere considerato etico, anche perché porta a reciproci vantaggi sia per l’impresa che per la comunità. Questa visione, basata sulla reciprocità e l’interdipendenza, richiede un forte cambiamento culturale a tutti gli attori.
Alla società richiede, innanzitutto, una nuova consapevolezza basata sull’assunto che "le aziende non hanno la responsabilità di tutti i problemi del mondo, né le risorse necessarie per risolverli" (M. E. Porter).

In secondo luogo, è necessaria una nuova cultura che, partendo dal riconoscimento del ruolo positivo esercitato dalle imprese per la crescita e la realizzazione delle persone e della collettività, integri socialmente l’impresa nella comunità e non la consideri come un corpo estraneo cui chiedere "soltanto" riparazioni (travestite da responsabilità sociale). Riparazioni che, come abbiamo visto, a causa del loro mancato inserimento in una visione strategica dei problemi della comunità non hanno quasi mai gli effetti sperati, soprattutto in termini di qualità e continuità.

Un terzo elemento è il ruolo esercitato da alcuni stakeholder nel determinare/condizionare le azioni di RSI da parte delle imprese. Con che criterio infatti assecondare le diverse richieste e definire le priorità? Per le aziende il rischio è di attivare azioni sporadiche senza alcun beneficio strategico per la comunità e/o a esclusivo vantaggio di qualche lobby o gruppo di pressione.

Alle imprese l’integrazione strategica della RSI nell’attività di business richiede un nuovo approccio alla definizione all’organizzazione aziendale e degli obiettivi.

In primo luogo, la RSI non può essere adottata solo dopo che l’opinione pubblica "ti ha colto con le mani nel sacco". Sarebbe inefficace e comporterebbe, soprattutto nel breve periodo, gravi danni alla reputazione aziendale.

In secondo luogo la responsabilità sociale (soprattutto se declinata in termini di charity o di filantropia) non può essere considerata come una "polizza assicurativa" per mitigare future critiche da parte dell’opinione pubblica in caso di crisi (l’obiettivo, spesso non dichiarato, è infatti quello di non essere criticati per le buone azioni realizzate in passato).

In terzo luogo, la RSI non può essere considerata un’attività cosmetica per lavare una coscienza troppo sporca o dimostrare la sensibilità sociale dell’impresa. Spesso le imprese scelgono di mettersi a posto la coscienza con attività di cause related marketing o charity, piuttosto che impegnarsi in attività chiare, di lungo periodo e delle quali sia possibile misurare l’impatto reale o il cambiamento apportato.

L’effetto di questi approcci, apparentemente contrapposti, ma che in realtà prendono origine da una visione comune – "riparatrice" (nel caso della società), di "controllo del danno" (nel caso dell’impresa) – è che la RSI raramente assume un ruolo strategico che contribuisce a migliorare sensibilmente e in modo permanente la qualità della vita della comunità.

Se non vogliamo che la RSI sia un’accozzaglia di attività scoordinate tra di loro e scollegate dalla strategia aziendale, senza impatti significativi sulla società e che accontenta ora l’uno ora l’altro gruppo di pressione, è necessario un cambiamento culturale collettivo che ponga l’accento non sul conflitto tra business e società, ma sulla loro integrazione e interdipendenza.

"Per far progredire la RSI – affermano Porter e Kramer – dobbiamo fare in modo che poggi su una diffusa consapevolezza della relazione che intercorre tra un’azienda e la società e allo stesso tempo trovi un radicamento sulle strategie e nelle attività delle singole imprese. Affermare che il business e la società abbiano bisogno l’uno dell’altro potrebbe suonare come un luogo comune, ma è anche la verità elementare che può far uscire le imprese dal pantano in cui sono state gettate dal loro attuale approccio alla Corporate Social Responsability".

Se è vero che il successo ottenuto da un’impresa a spese della comunità è illusorio e temporaneo; se è vero che l’azione di riparazione del danno reclamata dalla società civile è altrettanto illusoria e temporanea nel caso in cui la RSI non entri nel DNA dell’impresa; allora la dipendenza reciproca richiede che le decisioni di business e le politiche sociali di un determinato territorio-comunità debbano seguire entrambe il principio del valore condiviso. Ovvero le scelte devono essere fatte per dare beneficio ad entrambe, sia all’impresa che alla comunità.

Se invece le scelte saranno effettuate – come oggi troppo spesso avviene – per favorire l’una o l’altra, ci troveremo tra qualche anno a fare i conti con l’aver definitivamente compromesso la prosperità di entrambe.

Articolo di Giampietro Vecchiato (piero_at_prconsulting.it)
Direttore clienti P.R. Consulting, Padova e Vice Presidente FERPI

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