Concilio di Nicea, da 1700 anni cristiani uniti dalla fede professata e condivisa

Alle soglie di un nuovo periodo storico che nel mondo greco-romano, dopo la grande persecuzione, inaugurò il tempo della cristianità, la chiesa di Aquileia, chiesa-madre del Nord-Est, ebbe un ruolo importante: polmone tra Roma e l’Oriente, fu un territorio sul quale visioni di chiese diverse trovarono tensioni e scontri, ma fu anche ponte di dialogo nella catena di trasmissione della fede che si aprì 1700 anni fa con il Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, da cui scaturì una professione di fede condivisa.

In avvicinamento all’anniversario (325-2025), la Facoltà teologica del Triveneto organizza il convegno Nicea andata e ritorno. Traiettorie di un Concilio (Treviso, 14 ottobre 2023), che accosterà alcune tematiche relative alla comunicazione e ricezione del simbolo niceno, con una particolare attenzione agli autori e ai territori di area aquileiese.

La relazione di apertura sarà tenuta da Emanuela Prinzivalli (Università La Sapienza, Pontificio Istituto Patristico Augustinanum, Roma), che fornirà l’inquadramento storico-teologico del Primo Concilio di Nicea; seguiranno gli interventi dei docenti dell’area patristica della Facoltà, che hanno curato la parte scientifica del convegno e illustreranno, in particolare, le “traiettorie” nell’area territoriale aquileiese di questo percorso (vai alla notizia – scarica il programma)
Ce ne parla Chiara Curzel, docente di Patrologia e Patristica all’Istituto superiore di Scienze religiose “Romano Guardini” di Trento e coordinatrice dell’area patristica dei docenti della Facoltà.

Professoressa Curzel, qual è l’importanza del primo Concilio di Nicea per la cristianità?
«Innanzitutto è l’evento in sé da considerarsi importante, dato che siamo a pochi anni dalla fine della grande persecuzione e ci troviamo all’inizio di un nuovo periodo storico, quello che inaugura il tempo della cristianità, almeno nell’impero greco romano, pure se i cristiani sono anche al di fuori dei suoi confini».

Ripercorriamo l’evento: che cosa avvenne?
«Il concilio fu convocato dall’imperatore Costantino nel 325 per dirimere una questione di tipo teologico: la cosiddetta questione ariana che metteva in dubbio la piena divinità del Figlio rispetto al Padre fino a considerarlo la prima delle creature, e dunque discuteva l’idea stessa di Dio e di salvezza. L’evento raduna un grande numero di vescovi, circa 300, quasi tutti della parte orientale dell’impero, anche se non manca qualche rappresentante dell’occidente e persino di qualche regione non sottomessa a Roma».

Qual è il tratto caratterizzante?
«È importante il fatto che la questione dibattuta venga risolta in maniera sinodale, con il radunarsi dei rappresentanti ufficiali delle chiese, e attraverso la stesura di una professione di fede comune, che diventa da questo momento in poi prova della retta fede e elemento di comunione tra le chiese».

Quali furono le conseguenze di questo atto ecumenico?
«Il credo che ne scaturisce è sicuramente qualcosa di nuovo, perché è la prima formula pubblicata da un sinodo ecumenico e dunque il primo a poter reclamare un’autorità universale. Nello stesso tempo esso è però anche un punto di arrivo che riassume le varie acquisizioni teologiche dei primi tre secoli dell’era cristiana all’interno di una formula condivisa che poi, con le acquisizioni del successivo Concilio di Costantinopoli del 381, rimarrà fino a oggi il fondamento della fede professata dai cristiani».

La ricezione di tale credo fu problematica?
«La ricezione non fu per nulla automatica; esso fu oggetto di discussione nella chiesa per oltre 50 anni, con sinodi e concili locali che ne misero in dubbio la formulazione, contestandone i termini maggiormente identificativi – in primis, come si dice nel Credo domenicale, “della stessa sostanza” (l’homousios) introdotto per contrastare Ario – ma nonostante questo rimase sempre un documento a cui appellarsi e in cui identificarsi, al punto che ben presto il riferimento alla fede dei santi padri di Nicea fu sentito come imprescindibile e autorevole. La necessità di essere spiegato e compreso – anche nei suoi silenzi e nelle sue difficoltà – fece del simbolo niceno l’oggetto di un’imponente produzione letteraria del IV secolo di stampo catechetico, teologico, omiletico, polemico, di cui ci rimangono moltissime testimonianze».

Qual è l’attualità di questo anniversario, dopo 1700 anni?
«Il Concilio di Nicea continua a essere importante per la chiesa, sotto vari aspetti: ecumenico, storico, politico, culturale, pastorale, teologico, territoriale… Nella sua valenza ecumenica dice che i cristiani trovano unità attorno alla fede professata e condivisa, che cerca parola per dirsi. Da un punto di vista storico si trova nel momento di passaggio da una fede perseguitata a una fede riconosciuta e favorita; segna quindi il passaggio verso il tempo successivo, di cui siamo figli».

La valenza politica?
«Tutta la vicenda parte da un concilio convocato da un imperatore riconosciuto come capo della chiesa. Pone dunque il tema sempre attuale della relazione tra potere politico e potere religioso. Culturalmente, inoltre, il credo di Nicea nasce da formule precedenti fondate sulla Scrittura, ma contiene termini filosofici di difficile comprensione: il credo cristiano si forma all’interno del mondo greco ellenistico e ne porta le tracce nella sua teologia e nei suoi dogmi».

Che cosa ha significato per la trasmissione della fede?
«Il simbolo di Nicea ha un ruolo importante come atto di tradizione, per la custodia e la trasmissione della fede nella chiesa. Ogni generazione ha bisogno di trasmettere la fede a quella successiva e di tradurla, anche se questa operazione necessaria non è mai scontata né facile. In questa fase cruciale della storia cristiana la formulazione di un simbolo comune è stata molto importante».

Oggi, quale valenza pastorale e teologica ha il simbolo niceno?
«Il credo ha per sua natura forma stabile, ma ha bisogno di essere poi “raccontato” e spiegato all’interno delle diversificate comunità cristiane. Richiede in ogni tempo di essere rimesso al centro della vita cristiana ma anche di entrare in relazione con le categorie culturali che mutano storicamente e geograficamente. Dal punto di vista teologico, il problema centrale è quello trinitario: come pensare Dio e le sue relazioni? Come pensare il Figlio davanti al Padre? Come pensare il coinvolgimento dell’uomo nella dinamica trinitaria e quindi la salvezza?».

Anche l’aspetto territoriale ha un suo peso. Quale fu il ruolo della chiesa di Aquileia?
«La chiesa di Aquileia, guidata dai vescovi Teodoro, Fortunaziano, Cromazio, non rimase ai margini del dibattito suscitato a Nicea. Atanasio, il patriarca di Alessandria, che partecipò come diacono al Concilio, celebrò la Pasqua ad Aquileia nel 345, accolto da Fortunaziano, il quale poi, stando al breve cenno di Girolamo, ne tradì la fiducia confermando la decisione imperiale del suo esilio. Aquileia, polmone tra Roma e l’Oriente, fin dai tempi di Nicea fu un territorio sul quale visioni di chiese diverse, quelle di allora di Oriente e di Occidente, trovarono tensioni e scontri. Nella chiesa madre del nord-est si ripartì sempre da capo per corrispondere alla vocazione di essere ponte di dialogo, a volte con successi, di cui fu esemplare stratega Cromazio, a volte con pesanti insuccessi, come fu l’esito del Concilio dei Tre capitoli nel VI secolo».

Il Concilio di Nicea che cosa dice ai cristiani di oggi? Come li interpella?
«La formulazione del credo è stato sicuramente l’apporto più importante del Concilio di Nicea – anche se non l’unico: ci sono stati pure i canoni riguardanti la data della Pasqua, la struttura della chiesa, la riammissione di eretici, alcune norme liturgiche. La chiesa di oggi ha bisogno di ritornare a questa centralità della fede condivisa come elemento di unione e di comunione ma anche come fonte e contenuto di evangelizzazione e di spinta missionaria. Ha bisogno di verificare il suo stile sinodale e il suo cammino ecumenico consapevole che ciò che unisce è la stessa fede in Gesù Cristo figlio di Dio. Ha bisogno di ritrovare un annuncio che genera credenti, discepoli del Cristo, e può farlo solo ritornando alla freschezza di una fede professata e vissuta, che va all’essenziale e al necessario, per ridare anima e significato alle variegate forme di espressione di essa».

La comunicazione assume quindi un ruolo fondamentale.
«Sì, e per questo il convegno si concentra sulle tematiche relative alla comunicazione e alla ricezione del simbolo niceno, con particolare attenzione all’area aquileiese a cui territorialmente appartiene l’attuale Triveneto: la nostra fede è debitrice di una catena di trasmissione che risale a quei tempi. Ripercorrerne una tappa fondamentale potrà essere di stimolo per una fede più salda e ancora generativa».

Il convegno “Nicea andata e ritorno. Traiettorie di un Concilio” come affronterà questi aspetti?
«Il convegno nasce da un laboratorio di ricerca comune dei docenti dell’area patristica della Facoltà Teologica del Triveneto. Alla relazione portante della professoressa Emanuela Prinzivalli, che fornirà l’inquadramento storico-teologico del Primo Concilio di Nicea, seguiranno comunicazioni più brevi a cura dei docenti stessi, più attenti all’area territoriale e ad aspetti che hanno condizionato la comunicazione e la recezione del Credo scaturito da quel Concilio. Di qui anche il titolo: Nicea andata e ritorno. Traiettorie di un Concilio: ogni comunicazione ha bisogno non solo di essere emessa ma anche di essere recepita, accolta, fatta propria. Per questo si desidera indagare le “traiettorie” di questo percorso, che coinvolgono anche questioni di linguaggio, elementi di costruzione del discorso, esempi di dibattito e di ricezione, alcuni significativi snodi successivi e la mediazione di importanti personalità del territorio come Rufino, Cromazio, Zeno, Fortunaziano».

Paola Zampieri

(Facoltà Teologica del Triveneto)