Pediatra Farnetani: “obbligo scuola fino 18 anni arma contro devianze”

(Adnkronos) – Posticipare l’obbligo scolastico a 18 anni è una valida ‘arma’ per combattere le devianze dei giovani. Ne è convinto è il pediatra Italo Farnetani che, commentando all’Adnkronos Salute, le misure contro la dispersione scolastica, contenute nel cosiddetto Decreto Caivano, approvato nell’ultimo Consiglio dei ministri, spiega: “oggi il 75% dei ragazzi arriva al diploma di maturità, mentre un 25% interrompe gli studi a 16, appena finito l’obbligo. Sappiamo che chi smette di andare a scuola ha problemi personali o famigliari, al contrario di chi è cresciuto in un contesto che lo ha motivato allo studio. Ed è proprio quel 25% il più bisognoso di restare a scuola fino a 18 anni, perché se interrompe le lezioni finisce nella noia, perde il contatto con i suoi coetanei, presi dagli impegni scolastici, e si lega a ragazzi più a rischio psicosociale”. 

“Non importa se in quei due anni i ragazzi imparano poco o sono disattenti ma intanto stanno in ambiente con un gruppo di ragazzi motivati, che studia e che sicuramente può fargli bene”, aggiunge Farnetani, sottolineando come “la dispersione scolastica è responsabilità dello Stato. Oggi infatti – sostiene – fino a 16 anni il ragazzo è un ‘obbligato allo studio’, quindi lo Stato deve verificare che venga tutelato in questo suo obbligo”. E ancora, il pediatria, professore ordinario dell’Università Ludes-United Campus of Malta, sottolinea “il ruolo importante degli insegnanti, che devono essere molto attenti a capire le situazioni di disagio, di rischio sociale, di problemi psicologici degli alunni perché – dice – le devianze possono essere prevenute se ne vengono individuati i segnali precocemente”.  

“Importante infine creare dei punti di aggregazione ed incontro sociale fra i giovani, tanto più importante perché dopo la pandemia si è ridotta la possibilità di incontro in presenza e hanno preso sempre più spazio i social. È importante poi – conclude – incrementare anche lo sport vissuto non solo come competizione ma come momento di vita comune condivisa”.  

(Adnkronos – Salute)

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