Gli adolescenti oggi: Liberi ma Fragili

Capita di leggere, nelle analisi degli intellettuali sui fatti della cronaca giovanile, l’insistenza su quel distacco comunicativo

che è facile incontrare quando i giovani si osservano dall’esterno, senza incontrarli ed apprezzarli.

Spesso, questa strana patina di un mondo a parte, questa radiazione malinconica di anaffettività, viene interpretata come la conseguenza dell’egemonia tecnologica del nostro tempo.

Il mondo iper-materiale starebbe togliendo la sensibilità, il nutrimento dell’anima. Il lato oscuro del progresso imporrebbe una regressione dei costumi: la stimolazione della sensorialità, la perdita della sensibilità.

I giovani parlano poco di sé e per lo più lo fanno in luoghi e momenti scarsamente visibili nella società, che pare loro lontana ed assente.

La bell’età merita innanzi tutto conoscenza diretta: ascolto ed attenzione all’esperienza di vita che i giovani fanno. La riflessione va posta al vissuto degli adolescenti, non rassegnandoci a ridurre il malessere collettivo, oggi diffuso e palpabile, a disagio personale da curare con psicofarmaci e sedute terapeutiche. Possiamo interpretare quell’impressione di vivere in un mondo separato, che gli adolescenti a volte trasmettono, con una forma di stanchezza.

Una stanchezza interiore

C’è una stanchezza che ti prende quando senti di non farcela più (a casa, a scuola, nel mondo); c’è uno stress che ti blocca le forze, ti fa rintanare nel chiuso della stanza, che amplifica la compulsione dei richiami del mondo. C’è anche però la possibilità di farsi curare dalla stessa stanchezza, di ascoltarla con attenzione ed imparare la sua lezione. Per la prima volta nell’evoluzione della nostra cultura, le nuove generazioni sono lasciate al loro destino, alla “libera” evoluzione di un’autonomia sempre più svincolata da orientamenti sociali, vincoli etici, da luoghi e appartenenze identitarie. La rottura con la tradizione è evidente. Il primato è assegnato all’esposizione a alla distinzione della propria persona: non ci sono riferimenti obbligati, ognuno si comporti come gli piace, finché  gli piace. Alla società concepita gerarchicamente si sostituisce la società delle libertà, materialmente intese e affidate al criterio della socializzazione autoreferenziale. L’offerta generosa della massima libertà contiene, in realtà, un doppio inganno. Il primo è quello di presupporre che l’adolescente sappia veramente cosa vuole, ma questo, nel lungo arco dell’età evolutiva, non sempre è possibile. Solo vivendo, gradualmente per tentativi ed errori (che poi si pagano sempre), si scopre che cosa veramente si voleva e si cercava. L’autonomia personale è una meta a caro prezzo, non il dato di partenza. Il secondo inganno riguarda il ritorno di un obbligo molto più invasivo di quello della società autoritaria. Se hai la possibilità di fare tutto ciò che vuoi ma poi non lo sfrutti e non realizzi il topo delle tue possibilità, la colpa cade su di te. La società è salva, tu sei dannato. La società delle libertà, in realtà, è la società della prestazione.

La società della prestazione

La nuova fragilità giovanile è la conseguenza di questa libertà paradossale. Le nuove generazioni vivono il terrore di non essere all’altezza delle aspettative che sentono che qualcuno ha su di loro (che siano i genitori, gli insegnanti, il bullo di turno, non cambiano le dinamiche). “Mi dicono che posso farcela e quindi devo farcela”. L’obbedienza alle regole etiche, civili e religiose è sostituita da un’altra obbedienza: quella di corrispondere all’obbligo assunto con se stessi di fare di più, di reggere la pressione di conformità, di adeguamento alle attese. Il mito dell’autorealizzazione, del farsi da sé, ha un conto salato. La fatica non ha limiti, perché la prestazione è sempre incompleta, migliorabile. Rimane sempre un po’ di delusione, quando si è in competizione con sé stessi. Ti viene ribadito per chi vuole nulla è impossibile; quindi non c’è pace, devi massimizzare la prestazione. Quando non ce la fai più, sei costretto a fermarti e a prendere atto dei tuoi sintomi: depressione, deficit di attenzione, dipendenze, perdita del desiderio, ossessione per il cibo, cognitive overflow syndrom (quando si ricevono troppi stimoli cognitivi e non si riesce a prendere una decisione), disturbo border dove confluiscono tutte le fratture affettive (paura dell’abbandono, sensazione cronica di vuoto, comportamenti autolesivi e impulsività, instabilità e conflittualità), burn out (sensazione di “essere fuori”).

Imparare dalla stanchezza

C’è un fermarsi che coincide con lo schianto personale, ma c’è anche una stanchezza che ti spinge a fermarti, a prenderti cura di te stesso, che ti apre alla capacità di attenzione profonda, apre lo sguardo ad una vita altra. Per sottarsi alla dinamica del fare e del correre, che sono i verbi imposti non dalla libertà ma dalla prestazione, si può imparare ad indugiare, a non rispondere immediatamente agli stimoli. Così si può acquisire la capacità di uno sguardo che si sottrae alla iper-attenzione breve e veloce della società, per diventare consapevoli e competenti sugli stimoli che si ricevono senza averne consapevolezza. E’ un elevarsi dell’anima.

Zone di silenzio

Una buona regola è quella di mantenere “zone di silenzio” durante l’attività quotidiana, di cercare qualche frammento almeno del silenzio della natura che è assai simile a quello che si avverte nell’interiorità emozionale. Questo silenzio non è mai “vuoto” ma è vivo ed abitato, come quello che gli adolescenti colgono spontaneamente nei campi estivi, nei ritiri ed anche in certe celebrazioni. La creatura umana è l’unico animale che sa di dire “no” ai suoi impulsi, perché non vive di istinti. Il dovere sociale di reagire al timore di perdere la stima degli altri, di quelli che si aspettano tanto da noi ma non sempre per il nostro bene, è un giogo pesante. La libertà è scomoda e comporta l’indipendenza dalle pressioni sociali del marketing che si scatena soprattutto sugli adolescenti (i nuovi possibili clienti da fidelizzare quanto prima). Sarebbe un buon servizio alla stanchezza di oggi pensare le parrocchie come luoghi di riposo e di cura della fatica. Abbiamo molte opportunità: un oratorio con tanto gioco e poco sport, un catechismo che comprende sempre un tempo di silenzio prolungato, una messa con tempi distesi, uno stile celebrativo che invita alla pace interiore. Soprattutto il silenzio della comunione, come vero invito alla contemplazione, perché il silenzio liturgico è cosa viva, alla massima intensità. Da dove, se non di lì, si alimenta l’educazione cristiana alla libertà?

Si può pensare la parrocchia come uno spazio che invita a gustare il piacere della calma ed educa alla fascino della libertà dalla prestazione (sportiva, scolastica, sociale, a volte anche sacramentale). Sono solo degli spunti, appena una briciola di ciò che i ragazzi hanno bisogno. Possiamo però cominciare da lì, perché almeno questo è in nostro potere, ancora.

Domenico Cravero parroco, sociologo e psicoterapeuta

Tratto dal settimanale: La Voce e il Tempo, Torino, 30 ottobre 2022


(Diocesi di Padova)