Come le stelle del cielo

«Sancti Spiritus assit nobis gratia» (La grazia dello Spirito santo ci assista). Inizia così l’antica prosula medievale per il giorno di Pentecoste. È un testo del X secolo pensato dall’abate Notkero Balbulo come stratagemma per memorizzare la lunga melodia -lo jubilus– che seguiva l’alleluia di quella festa liturgica. Ma non era soltanto un’astuta “furbizia” per aiutare i cantori. Era occasione per parlare del mistero che si stava celebrando. Parole e musica diventano catechesi che rende un po’ più accessibile il senso di un’espressione greca usata proprio da Gesù: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Giovanni 14,16). Il Paraclito è grazia che ci assiste, dono che ci difende e diventa forza per il nostro essere testimoni di Cristo dinanzi al mondo. La prosula dell’abate Notkero rimase nella liturgia fino a quando, progressivamente, venne sostituita da quella che, tutt’oggi, cantiamo come sequenza di Pentecoste: «Veni, sancte Spiritus» (Vieni, Spirito Santo).

Nel medioevo la Chiesa aveva la consapevolezza che «due sono le festività maggiori e maggiormente necessarie fra tutte: la Pasqua e la Pentecoste». Due solennità strettamente unite e vissute dalle prime comunità cristiane in una prospettiva unitaria. Il giorno di Pasqua si dilatava per cinquanta giorni e la Pentecoste rappresentava proprio questo periodo pasquale che si chiudeva, con solennità, al pentekostè hemera: il cinquantesimo giorno.

Ma quella consapevolezza medievale, che porta i teologi dell’epoca a ritenere anche quella solennità “maggiore e maggiormente necessaria fra tutte”, deriva probabilmente da una prassi liturgica che, a Roma, è testimoniata dall’inizio del IV secolo. Il santo papa Leone Magno, in una sua omelia per quella celebrazione, dice di voler rivolgere le sue parole «per istruire i nuovi figli della Chiesa» (Sermo 76). A Pentecoste, infatti, si battezzava. Non ci stupisce, allora, che nelle pergamene degli antichi libri liturgici, anche il sabato che precedeva la Pentecoste venisse indicato come un “Sabato Santo”. In esso si svolgeva una veglia simile a quella pasquale nella notte santa e che, curiosamente, in alcune zone della Francia arrivò ad avere persino una benedizione del cero. Il Sacramentario di Reims e Besançon, un libro liturgico del XII secolo, è una bellissima testimonianza di come avessero addirittura composto un Exultet per quella che era indicata nelle rubriche come la Benedictio Cerei Pentecostes (Benedizione del Cero di Pentecoste). E nella nascente Università di Parigi, nel secolo successivo, la teologia liturgica che lega Pasqua e Pentecoste sembra quasi venir cantata amplificando il testo del Preconio: «Nessun vantaggio per noi essere nati, se [Cristo] non ci avesse redenti e a nulla ci sarebbe stata utile la Redenzione se egli non ci avesse mandato il Paraclito» (Guglielmo di Auxerre, Summa de officiis ecclesiasticis).

Che Pasqua fosse il modello celebrativo per la Pentecoste, ce lo dicono anche le rubriche liturgiche medievali che, con tono imperativo, riportavano: «lectiones legantur sicut in Vigilia Paschae» (si leggano le letture come nella Veglia di Pasqua). Ma non erano gli stessi testi. Si doveva osservare lo stesso ritmo celebrativo: lettura, cantico e preghiera. Se a Pasqua si iniziava col racconto della Creazione, a Pentecoste, invece, era il racconto di Abramo messo alla prova da Dio (Genesi 22,1-19) il primo ad essere ascoltato. Tra le due solennità, in questo modo, veniva a crearsi un parallelo fra due Padri della storia della salvezza: Adamo e Abramo. Il primo come padre nella carne, il secondo come padre nello spirito. Anche questa diventava occasione per una catechesi mistagogica. Nella Chiesa antica, i neofiti (neobattezzati) erano indicati con il termine greco fotismoi: illuminati. Nel medioevo troviamo un’altra immagine luminosa ed efficace: i battezzati sono le stelle. È la concretizzazione della promessa dell’angelo ad Abramo: «Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo”» (Genesi 22, 15-17). Chi riceve il Battesimo appartiene ai figli di Abramo e ha la grazia di essere introdotto nella Terra promessa. In Cristo, quella terra è cielo: il Regno del quale egli ci ha detto che «è in mezzo a voi!» (Luca 17,21) perché è egli stesso.

I riti celebrati in quella notte, le letture ascoltate e meditate e tutte quelle formule che erano pregate sembrano quasi raccogliersi col canto della messa del giorno di Pentecoste. Il suo introito, che ancora oggi è stato conservato per questa celebrazione, è un testo dal libro della Sapienza: «Spiritus Domini replevit» (Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio. 1,17). La Chiesa scioglie un canto che professa la fede nella novità della grazia ricevuta: lo Spirito riempie la terra perché i battezzati possano riempire il cielo. Pentecoste non è fine di un tempo ma inizio! Da quel dono dello Spirito, nulla più può essere ordinario nel tempo di una Chiesa chiamata a “cantare e camminare” (cf. Agostino, Sermo 256). Nel medioevo, con quella liturgia iniziava il quarto tempo dell’anno liturgico: tempus peregrinationis (il tempo del peregrinare). I battezzati sono stelle messe in movimento dalla parola di Gesù: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Giovanni 20,21). Nel loro cammino non sono abbandonati perché la grazia dello Spirito Santo li assiste.

don Claudio Campesato

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(Diocesi di Padova)