Omicidio Pamela, parla Oseghale: “Non l’ho violentata né uccisa, fatta a pezzi per paura”


“Su di me pregiudizi legati al fatto che io sia un immigrato di colore. Sono addolorato ma non posso pagare colpa non mia”
Roma, 10 mag. “Non ho ucciso la povera Pamela e nemmeno l’ho violentata. Purtroppo le ricostruzioni fatte durante il processo non hanno tenuto conto delle tante prove a mia discolpa e in parte sono sicuro di pagare questa situazione per pregiudizi personali su di me legati al fatto che io sia un immigrato di colore”. A parlare all’Adnkronos dal carcere di Forlì è Innocent Oseghale, il 35enne nigeriano condannato all’ergastolo per aver violentato, ucciso e fatto a pezzi Pamela Mastropietro, la 18enne romana il cui cadavere fu ritrovato in due trolley a Macerata la sera del 30 gennaio 2018.
“Penso spessissimo a Pamela – dice – a quanto è successo, sono dispiaciuto e addolorato, ma non posso pagare una colpa non mia. Non ho violentato Pamela, abbiamo avuto rapporti sessuali con il consenso di entrambi prima di andare a casa mia e una volta a casa”. Oseghale ricostruisce nei dettagli quelli che, secondo la sua versione, sono gli attimi prima della morte della ragazza. “Dopo aver fatto la spesa al supermarket mi sono messo a preparare la colazione mentre ascoltavamo un po’ di musica. Pamela ha consumato una sostanza che non avevo mai visto consumare prima a nessuno e di cui quindi non conoscevo gli effetti. Si è sentita male ed è caduta a terra tutto ad un tratto. Ho sottovalutato il suo malore – continua – Ho chiamato un amico che mi ha suggerito di darle dell’acqua. L’ho messa a riposare al letto e sono uscito. Al mio ritorno Pamela non c’era più”.
“Per me è stato uno choc al rientro – racconta Oseghale – Mi ha assalito la paura di perdere la mia compagna, già in comunità con la mia primogenita e incinta del mio secondo figlio, che purtroppo non ho nemmeno potuto vedere nascere. Ho avuto paura di perdere tutto quello che avevo sognato nella mia vita, avere una famiglia. Ho avuto paura che nessuno mi avrebbe creduto, a me, un ragazzo di colore con in casa il cadavere di una ragazza di 18 anni. Nella mia testa io ero già colpevole, non ho capito più niente e ho fatto quello che è già noto a tutti. Dovevo cercare di salvarmi. Ho pensato a come uscire da quella casa, a salvare la mia famiglia. Ed è stato così che ho commesso lo sbaglio più grande della mia vita, non chiamando subito l’ambulanza e la polizia. Ho avuto paura e chiedo scusa. E’ il mio rimorso che porterò sempre dentro di me”.
In aula a gennaio scorso, dove si svolgeva il processo bis che lo ha visto imputato per violenza sessuale, ci sono stati alcuni momenti di tensione con la madre di Pamela Mastropietro. “Chiedo perdono alla mamma di Pamela – dice Innocent Oseghale in una lettera scritta all’Adnkronos dal carcere di Forlì dove è attualmente detenuto – Il mio sfogo non era rivolto a lei ma a quanti mi hanno provocato e insultato durante l’udienza. Ho sbagliato a reagire in quel modo e chiedo scusa. Con la mamma di Pamela sto condividendo lo stesso dolore, perché anche io ho perso i miei figli, non so dove siano, se sanno di me, del grave errore che ho commesso, se mai un giorno potrò rivederli. Spero solo di poter tornare a fare il padre, un giorno, di poter spiegare ai miei figli cosa è veramente successo, anche perché il mio secondo figlio è nato quando ero già in carcere e la mia famiglia sta pagando a caro prezzo i miei errori”.
“Tra le quattro mura della mia cella non passa giorno in cui non penso a Pamela – aggiunge – Il dispiacere per quello che è successo è enorme. Ho agito senza ragionare, pensavo solo che mai mi avrebbero creduto. Ho fatto tutto in preda a uno stato confusionale. Non l’ho stuprata, non l’ho uccisa. Al contrario ammetto ogni mia colpevolezza nel mancato soccorso e nel vilipendio del cadavere con la crudeltà che non nego e di cui chiedo scusa. Sono pentito. Pentito di non averla soccorsa, di non aver chiamato l’ambulanza appena Pamela si è sentita male, di non aver chiamato la polizia. Forse Pamela si sarebbe salvata. Ho fatto qualcosa di orrendo, preso dal panico. Vista la mia condizione di ragazzo straniero che ha vissuto sulla sua pelle il viaggio in mare che ho fatto, partendo dalla Libia, che ha subito violenze di ogni genere insieme alle altre persone sequestrate dagli scafisti, mai e poi mai avrei violentato e ucciso una ragazza”.
E sottolinea: “Non sono questo, non sono un assassino stupratore. La ragazza (Pamela, ndr) purtroppo è morta per droga. Quando ha collassato – ricorda – pensavo, e Dio mi è testimone, che stesse dormendo. Ho sottovalutato tutto perché non ho capito ciò che mi stava accadendo e quando sono rientrato a casa, l’ho trovata con la bava alla bocca, fredda. Mi è caduto il mondo addosso. C’era una ragazza inerme, senza vita in casa mia. Ho pensato subito alla mia famiglia e al rischio di perdere tutto quello che avevo sempre desiderato. Chiedo scusa a Pamela, che è in cielo – conclude Oseghale – a tutta la sua famiglia, in particolare alla sua mamma. Oggi in carcere lavoro 7 ore al giorno, dal lunedì al venerdì, ho fatto un corso di alfabetizzazione per imparare al meglio l’italiano, faccio molta attività fisica, ascolto musica, guardo la tv e ho intrapreso un cammino cristiano di fede perché ho capito quanto è grande l’amore di Dio e prego, e vado a messa tutte le domeniche. E’ la fede che mi sta dando la forza di andare avanti, il lavoro che mi tiene impegnato da due anni. La speranza è che la realtà dei fatti emergerà”.
(di Silvia Mancinelli)

(Adnkronos)