Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013) c’è un’immagine che anticipa di quasi un decennio il tempo culturale ed ecclesiale presente. È l’immagine del “corpo a corpo” che riguarda l’evangelizzazione. Al n. 88 è evidenziata la contrapposizione fra gli atteggiamenti difensivi e di fuga nella comodità del privato, nelle community omogenee per interessi, gusti, linea di pensiero, contro la dimensione sociale del vangelo, che invece ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, in un costante corpo a corpo con il suo dolore, le sue gioie, il suo vissuto. Come ci interpella oggi questa contrapposizione? Ne parliamo con Matteo Pasinato, docente di Teologia pastorale e di Teologia morale fondamentale nella Facoltà teologica del Triveneto.
«Difendersi e fuggire: è la reazione “corporea” sulla quale veniamo informati da mesi, nel teatro della guerra: attaccare, avanzare, ritirarsi, fuggire, proteggersi. È la drammatica reazione umana che, anche senza la guerra, pure nel nostro contesto viviamo tutti i giorni. E i segnali che dà a vedere la comunità cristiana non sono per niente fuori da questo corpo a corpo a volte difensivo (o di attacco) e spesso di fuga silenziosa (che è ancora più doloroso di un attacco esplicito o di dissenso)».
Professor Pasinato, in questo contesto, la carità dove si colloca?
«È difficile collocare la carità da qualche parte, perché essa viene ‘non sai da dove’ e va ‘non sai verso dove’ (come lo Spirito di Dio). Certamente non va collocata in quella che potremmo chiamare ‘la testa’ del credente. Se ‘non sai’, la carità non si può ‘sapere’. E allora c’è un’altra strada? Sì, c’è la strada delle ‘azioni’ (quello che in concreto compiamo tutti i giorni) e c’è la strada della ‘comunione’ (fare insieme). Forse ci vorrà del tempo perché le nostre comunità cristiane – che spesso sono luoghi di Parola e di parole – ritrovino l’importanza dei gesti, quelli ordinari e umani, quelli straordinari e cristiani, e ritrovino la capacità di fare insieme (ad altri non-credenti, ad altri cristiani, ad altre religioni)».
Nella cultura attuale si rischia spesso di ridurre la fede a una dimensione vagamente spirituale. Si può invece parlare di “peso corporeo” della fede? Come recuperarlo?
«Quando si parla di dimensione ‘vagamente’ spirituale, non è ‘spirituale’ che fa problema, quanto il ‘vagamente’. Si può usare un’immagine efficace per capire questa idea: il vagabondo. Si va un po’ qua e un po’ là. Si fa il turista spirituale, a volte l’emigrante spirituale, altre volte la vita spirituale è anche un pellegrinaggio. Direi che il problema è se questi diversi modi di camminare riusciamo a capirli, oltre che viverli. La fede ha un ‘peso corporeo’, non tanto però per dare più spazio alle espressioni fisiche, corporee alla fede. Il primo peso corporeo della fede è se la fede è solo una ‘visitina turistica’ (ogni tanto) nello spazio della comunità; se è una ‘emigrazione’ (ricerca di luoghi intensi, di piccole comunità più progredite, più aggiornate per i moderni o più tradizionali per i nostalgici). Forse il peso ‘corporeo’ più difficile è fare della fede un pellegrinaggio».
La globalizzazione della fraternità (indirizzo esplicito dell’enciclica Fratelli tutti) pone delle importanti sfide ecclesiali e culturali. Qual è secondo lei la più urgente da affrontare?
«L’enciclica Fratelli tutti non è una enciclica ‘interna’ alla chiesa, anche se dentro alla chiesa usiamo continuamente la parola ‘fratelli’ (e poi abbiamo anche aggiunto ‘sorelle’, quasi per gentilezza). Il papa – secondo me – è spinto dal desiderio di ‘correggere’ (è una parola a cui diamo poco valore, perché niente ci sembra più da correggere), di riorientarci in due direzioni: far uscire l’idea di fraternità dai circoli chiusi e auto-protettivi o degli auto-interessi (in questo caso anche la parola fratello è ‘malata’); e la seconda direzione è far entrare, nel modo di vivere la vita cristiana, quella che il papa chiama la “dimensione sociale del vangelo”. Il vangelo è fatto per vivere relazioni aperte, relazioni visibili sulla piazza della comunità (sul sociale)».
Quali sono alcune attenzioni pastorali da considerare?
«Le attenzioni ogni comunità le può pensare insieme (qui la sinodalità potrebbe mettere insieme il ‘dentro’ e il ‘fuori’ della parrocchia). Vi sono delle attenzioni però che andrebbero pensate meglio anche come coordinamento delle comunità (le diocesi ad esempio). Noi abbiamo una pastorale legata molto a una tradizione che ha funzionato per secoli. Ma oggi la ‘fraternità’ – proprio con il mondo di oggi – quasi ci impone l’attenzione del discernere di più, insieme, e con coraggiosa verità».
La “carità politica” di cui parla Fratelli tutti (nn. 180-181) potrebbe essere intesa come la forma sintetica della cura del tessuto personale e del tessuto sociale? Potrebbe suggerire vie per promuoverne lo sviluppo?
«Veramente il primo a parlare di ‘carità sociale’ fu papa Pio XI, in una enciclica del 1931. Era l’epoca di una crisi economica mondiale (quella del 1929), alla quale si era reagito dando fiato ai totalitarismi europei del nazismo e del fascismo. Il papa analizzava la situazione degli anni ‘30 dicendo che “la libera concorrenza, […] che è utile, non può essere il timone dell’economia” e aggiungeva “la supremazia economica […] una forza cieca e una energia violenta”. Cosa voleva dire ‘carità sociale’? Questa espressione chiedeva che il liberalismo avesse come argine la giustizia (e l’unica strada era quella delle regole giuridiche) e che la politica avesse come ‘anima’ la carità sociale (uomini e donne politicamente animati – in quel tempo – dalla libertà e dignità della persona umana, perché la politica era totalitaria). Papa Francesco non ripete la stessa idea di Pio XI, ma ripropone una lettura aggiornata al nostro tempo, dove il totalitarismo rischia di essere l’unica ‘anima’ rimasta alla economia e alla politica. È difficile dire qualcosa sulla ‘cura’ del tessuto personale e sociale, perché è molto fragile e povera la ‘diagnosi’. Cioè se non siamo malati, perché dovremmo curarci o curare?»
Paola Zampieri
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