Quale penitenza per l’uomo contemporaneo?

La domanda di riconciliazione non manca, è la forma a essere in crisi. È partita da questo dato di fatto – che ha trovato evidenza nel tempo di pandemia con l’alta partecipazione di fedeli alla celebrazione della penitenza nella terza forma – la riflessione sviluppata nella giornata di studio Ripensare la prassi penitenziale. La terza forma della penitenza: esperienza da archiviare o risorsa?, che si è svolta il 27 febbraio 2023 a Padova, nella sede della Facoltà teologica del Triveneto. L’iniziativa è stata promossa dalla stessa Facoltà in collaborazione con la Facoltà di Diritto canonico San Pio X di Venezia e l’Istituto di Liturgia pastorale Santa Giustina di Padova. Le tre istituzioni già nei due anni precedenti avevano approfondito la questione in un percorso di ricerca con i contributi di docenti di liturgia, teologia morale, diritto canonico, sociologia, teologia pastorale e sacramentale.

Numerosi e differenti gli stimoli portati dalle otto relazioni, da cui sono emersi alcuni passaggi ricorrenti: la necessità di passare dall’atto puntuale a un processo di conversione; il rispetto dei tempi dell’uomo; il primato della misericordia; la riscoperta dalla penitenza come virtù; il bisogno di comunità e di relazione. La terza forma è diventata così il pretesto per aprire nuove finestre nell’orizzonte del quarto sacramento.

Generare processi di conversione

Ad aprire i lavori della giornata di studio è stata Elena Massimi (Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, Roma), evidenziando che «il contesto della pandemia è fortemente penitenziale e la penitenza forzata ha messo in luce l’importanza del sacramento, nella sua dimensione comunitaria e liturgica; venuto meno il contesto è sparita la domanda, come dimostrano le sintesi sinodali, dove non si dice nulla del sacramento della penitenza». Quale sistema penitenziale è allora possibile per l’epoca contemporanea? Una sola forma forse è insufficiente. «La terza forma ha risposto a una situazione emergenziale; è stato un atto puntuale che non ha dato vita a un processo. Nella nostra prassi – ha sottolineato – non c’è un cammino di conversione del cristiano e per questo il sacramento non trova l’orizzonte entro il quale poter vivere». È necessario dunque «recuperare la complessità e la varietà cristiana nel fare penitenza. Se la prima forma potrebbe garantire itinerari di conversione personalizzati, la terza potrebbe aprire a un processo che si distende nel tempo e mettersi dentro il dinamismo di un cammino di conversione che chiede anche il rispetto – a cui non siamo più abituati – dei tempi di maturazione umana». Infine è fondamentale «recuperare una forma storica e credibile alla virtù della penitenza, cioè alla conversione vissuta grazie al dono dello Spirito ricevuto nel sacramento del battesimo e in cui il sacramento stesso esprime la sua efficacia».

Un’indagine sulla terza forma: dati e riflessioni

Una ricerca sociologica sulla terza forma è stata curata da Simone Zonato (Facoltà teologica del Triveneto), che ha operato sulla base di dati raccolti in un sondaggio che ha coinvolto gli studenti della Facoltà teologica e i presbiteri delle diocesi del Triveneto. Le risposte raccolte sono state 250: il 50,4% maschi e il 49,6% femmine; poco meno della metà sono laiche (45,6%), mentre i laici maschi sono il 22,4%; i presbiteri il 21,2%, l’8% sono religiose e religiosi, il 2,8% diaconi. L’età media è 50,2 anni. Quasi metà dei rispondenti appartiene alla diocesi di Trento e quasi un quarto a quella di Treviso. «Dalle risposte risulta una pluralità di visioni, di percezioni e di posizioni – ha affermato –. Emerge quel “Dio a modo mio” che conferma quanto già rilevato dalle ricerche sociologiche degli ultimi anni». C’è una differenza di visione tra presbiteri e laici (che appaiono meno entusiasti) e in genere «si percepisce una contrapposizione tra confessione individuale e terza forma, per cui la prima si rivendica come la formula autentica; soprattutto in rapporto ai peccati gravi la terza appare incompleta. C’è inoltre il riconoscimento generale della crisi del sacramento della confessione». Nel complesso, comunque, «da parte di coloro che hanno usufruito della terza forma si ricava – ha concluso – una valutazione positiva dell’esperienza, specie nella sua dimensione comunitaria».

Il tempo è superiore allo spazio

Che cosa pensano i preadolescenti della confessione? Che esperienza ne hanno? Sul tema ha condotto un’indagine Daniela Conti, pubblicata nel volume Fare penitenza, scritto con Andrea Grillo, e riportata da Assunta Steccanella (Facoltà teologica del Triveneto) per impossibilità dell’autrice a essere presente. Dalle risposte raccolte da 196 ragazzi e ragazze veronesi, fra gli 11 e i 14 anni, emerge come gli atti umani della penitenza chiamati in causa nel sacramento si stiano svuotando del loro peso esistenziale, e dunque del loro contenuto. I ragazzi sentono l’imposizione del sacramento e non è percepito il volto misericordioso di Dio; Dio appare piuttosto come un giudice, il peccato è una colpa e la penitenza è la liberazione dalla colpa. La dimensione vissuta nella celebrazione del sacramento è esclusivamente orizzontale, circoscritta alla figura del confessore; estremamente rara è la relazione verticale di rapporto con il Signore. «Emerge la necessità di recuperare la dimensione integrale del quarto sacramento, con una catechesi iniziatica e mistagogica al fare penitenza, – ha riportato Steccanella – oltre a un ripensamento del ruolo dei catechisti». Occorre passare «dall’atto puntuale al percorso di conversione. La terza forma – ha aggiunto – ha mostrato che non c’è bisogno solo di formule di assoluzione, ma anche del rispetto dei tempi dell’uomo, di parole e di relazioni da coltivare».

Il primato della misericordia

Sono quattro le sfide che Alessio dal Pozzolo (Istituto superiore di Scienze religiose “Mons. A. Onisto”, Vicenza) vede oggi per la chiesa nell’adozione in via eccezionale della terza forma della penitenza. Innanzitutto la presa d’atto che la chiesa, sorta storicamente e situata in contesti socio-culturali concreti, è in stato permanente di conversione comporta la necessità di integrare fino in fondo la storicità. La chiesa è inoltre chiamata ad assumere la forma della misericordia, non slegata dal lavoro della libertà, che è insieme personale e comunitario: «La terza forma della penitenza può diventare luogo di attuazione singolare della misericordia come forma della chiesa, purché – ha specificato – non si riduca alla mera celebrazione puntuale ma sia momento di un processo più ampio, teso a riabilitare una libertà ferita. È decisivo che tutta la chiesa sia coinvolta nell’opera della riconciliazione». La terza sfida è di onorare il sensus fidei e l’ultima è di riattivare una collegialità intermedia tracciando una figura di chiesa che dal basso percorre vie modeste di collegialità che iniziano a dare corpo ai proclami di sinodalità. «La pratica della terza forma della penitenza – ha concluso – può allora diventare sprone per una ricognizione ecclesiale complessiva (la misericordia come forma ecclesiae), al di là delle possibili forme rituali adottate o da adottare. Ecco che il cambiamento subito diventa via di rinnovamento anche ecclesiale».

Questioni canoniche

Nel rispondere al quesito se l’utilizzo della terza forma, avvenuto in occasione della pandemia, possa aprire la strada a un ripensamento della celebrazione della penitenza, Pierpaolo Dal Corso (Facoltà di Diritto canonico San Pio X, Venezia) ha messo in evidenza come «i presupposti storici della vigente disciplina evidenziano l’assoluta eccezionalità di questo strumento; estendere la sua applicazione fino a concepirlo come un’ulteriore forma ordinaria significherebbe snaturarlo, perpetrando un chiaro abuso in violazione di quanto ci deriva dal diritto divino. Non si può prescindere dal fatto che la completezza assolutoria avviene in ogni caso con l’integra confessione individuale dei peccati gravi, a cui si deve sempre ricorrere, a meno che non sia impossibile». Di certo, l’impiego di questa modalità nel periodo pandemico ha contribuito a far riscoprire il valore ecclesiale del perdono. «La revisione del sacramento dovrebbe rendere maggiormente consapevoli i fedeli sia del motivo per cui ricorrono alla misericordia divina, ovvero la rottura dell’alleanza con Dio cagionata dal peccato grave – che non si riduce alla mera infrazione di norme morali –, sia del rilievo comunitario della riconciliazione, che coinvolge tutta la chiesa pur mantenendo anche carattere personale». In conclusione, «l’imprescindibile dato storico-giuridico non lascia spazio per espandere l’applicazione dell’assoluzione collettiva, senza contare che una sua estensione sistematica e ordinaria potrebbe sortire anche l’effetto, sotto il profilo pastorale, di una ulteriore disaffezione al sacramento».

Una pastorale della conversione

L’idea di una “prospettiva catecumenale” è stata marcata da Roberto Bischer (Istituto superiore di Scienze religiose “Giovanni Paolo I” di Belluno-Feltre, Treviso, Vittorio Veneto), in una rilettura teologico-fondamentale del quarto sacramento e nell’ottica di una “pastorale della conversione”, senza la quale il rito della penitenza è destinato a restare lettera morta. «Si tratta di considerare e valorizzare – ha spiegato – la gradualità di un cammino di fede e di vita in modo da evitare, per quanto possibile, il rischio di ridurre la celebrazione e la grazia sacramentale a un unico momento celebrativo; ma piuttosto di integrare il carattere personale della riconciliazione, che non si realizza senza la dinamica antropologica della conversione». Ha poi richiamato la prospettiva di una chiesa che si riscopre caratterizzata dalla dimensione penitenziale: un grembo entro il quale il battezzato peccatore può comprendere la portata del proprio allontanamento da Dio e la chiesa può ritrovare un aspetto decisivo della missione ricevuta da Gesù. «In questa prospettiva – ha concluso – potrebbe essere compresa l’idea di Papa Francesco della chiesa come ospedale da campo, luogo di guarigione, dove il battezzato ritrova la propria identità come perdonato e dunque salvato».

Riconoscere e discernere il nuovo che ci provoca

Non abbiamo bisogno di ricette nuove, ma di processi da ridestare, oltre che di riattingere agli elementi sorgivi di un’azione penitenziale stanca e scontata. È questa l’opinione di Ezio Falavegna (Istituto superiore di Scienze religiose “San Pietro martire”, Verona), che richiama il vangelo della prossimità e l’annuncio delle persone fragili, segni dell’amore di Dio che converte e guarisce. Sottolinea inoltre il valore formativo e pedagogico del sacramento vissuto nella terza forma, che chiama oggi un cammino diverso e diversificato. «Occorre prendere atto della fragilità – ha affermato – e la fatica di accogliere la debolezza come un elemento della vita. C’è bisogno di comunità, di una storia fatta di relazioni e di tempo per coltivarle, alla luce di una Parola che è per tutti, in una chiesa che nella pandemia ha saputo consegnare segni e parole di misericordia comprensibili. Il perdono del Signore impegna a un cammino condiviso». Passare dalla dimensione emergenziale a quella progettuale «chiede un vero e proprio commiato da irrigidimenti tradizionali – ha concluso –; reclama disponibilità accogliente nei confronti dei nuovi segni del nostro tempo e ci obbliga a rischiare, non semplicemente lasciandoci attirare, ma mettendoci a servizio, in uno stile di discernimento del nuovo che lo Spirito ci dona».

Risorse inattuate e sfide pastorali

Uno dei rischi del Rito della penitenza è di istituire il perdonato e non il convertito ma, nella faticosa proposta della riconciliazione con Dio nella chiesa, ciò che non può morire è il gioco fra una coraggiosa attività e una benefica passività, cioè tra il primato della misericordia di Dio e la necessità della risposta dell’uomo che si dà nella penitenza. Lo ha messo bene a fuoco Loris Della Pietra (Istituto di Liturgia pastorale Santa Giustina, Padova), spiegando che «questo intreccio imprescindibile, come ha trovato consenso nella riflessione teologica, così deve e può trovare felice realizzazione nei cammini pastorali e in una celebrazione attenta al primato della Parola, alla soggettualità della chiesa e dell’assemblea radunata, al gesto dell’invocazione, al silenzio nel quale lo Spirito opera». Questo sarà possibile solo «nell’audacia di andare oltre il modello confessionale, comodo da gestire ma anche limitante, per attuare forme celebrative dove il dono divino possa essere gustato nelle pieghe dell’umano. A condizione – ha aggiunto – che non manchino luoghi e tempi a ciò dedicati (e non soltanto occasioni) e ministri dediti a creare le premesse affinché il credente accidentato si sporga sul dono immeritato di Dio e ne tragga guarigione».

Paola Zampieri

(Facoltà Teologica del Triveneto)