Sul fronte della tutela dei minori e delle persone vulnerabili la chiesa italiana si sta impegnando per costruire una nuova cultura della prevenzione. Per questo ha messo in campo il Servizio nazionale per la tutela dei minori (con Servizi regionali nelle 16 regioni ecclesiastiche affidati a un vescovo delegato, un coordinatore e un’équipe di esperti e 226 referenti diocesani, uno per ogni diocesi), la rete dei Servizi diocesani e dei centri d’ascolto (98 Centri in 157 diocesi, il 70% del totale), la formazione di 1200 operatori (genitori, allenatori, dirigenti, sportivi, educatori parrocchiali, insegnanti coinvolti nel progetto Safe) e, infine, la partecipazione al rinnovato Osservatorio nazionale per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile istituito presso il Dipartimento per le politiche della famiglia.
Abusi sessuali ma anche di potere, di coscienza, di autorità… Papa Francesco ha fatto notare che la mancanza o la poca trasparenza e responsabilizzazione nella chiesa fa perdere ai fedeli la fiducia nei loro pastori e rende sempre più difficile l’annuncio e la testimonianza del vangelo. E, per ritornare credibili, il pontefice ha ribadito che non basta fermarsi alla condanna ma è necessario promuovere una cultura della dignità della persona, coinvolgendo l’intera comunità ecclesiale chiamata a imparare dure lezioni dal passato. L’assunzione di responsabilità va fatta sia da parte di coloro che hanno abusato, sia di quelli che hanno permesso che ciò accadesse. Perché coloro che hanno sofferto sono la priorità.
Di questa priorità parliamo con don Gottfried Ugolini, responsabile del Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della diocesi di Bolzano-Bressanone e coordinatore del Servizio interdiocesano del Triveneto, che ha da poco concluso un corso nel ciclo di licenza della Facoltà teologica del Trivento a Padova sul tema “Tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Compassione-conoscenza-competenza”.
Don Ugolini, la chiesa altoatesina è stata la prima in Italia ad avviare, nel 2010, uno sportello di ascolto per vittime di abusi, mettendo al centro dell’attenzione le persone ferite, offrendo loro ascolto e accompagnamento. Che cosa richiede l’ascolto di queste persone? Come ci si accosta alle loro ferite?
«Prima di tutto le persone che hanno subito un abuso hanno bisogno di interlocutori affidabili, credibili e consapevoli che l’abuso in tutte le sue forme è una realtà. Questo è l’atteggiamento di fondo che permette di accogliere e di ascoltare le persone con attenzione, compassione e rispetto. Le persone richiedono di essere credute e prese sul serio. Un’atmosfera di accettazione, di fiducia e di empatia, insieme a un ambiente sicuro, favorisce e sostiene le persone che hanno trovato il coraggio e la forza di confidarsi. Questo loro passo è da apprezzare, perché segna l’inizio dei necessari passi verso la giustizia e la guarigione.
Le conseguenze di un abuso, indipendentemente dal tipo di abuso, toccano tutte le aree della persona, le relazioni sociali e il suo futuro; riguardano tutta l’esistenza della persona e sono da prendere seriamente in considerazione. Una sensibilità nei confronti delle conseguenze che hanno segnato la vita della persona è indispensabile. Non dobbiamo dimenticare che ci sono persone vittime di abusi che non ce l’hanno fatta a convivere con il fatto dell’abuso e con le sue gravi conseguenze esistenziali: per loro l’ultima via d’uscita è stato il suicidio. Altre persone hanno sofferto e soffrono ancora le conseguenze dell’abuso».
Quali sono le resistenze più forti che si incontrano nell’affrontare la realtà degli abusi?
«È normale che di fronte a questa realtà emergano resistenze fino al rifiuto di confrontarsi con essa. Il tema ci tocca nella nostra personalità, nell’intimità, nella sessualità, nell’affettività e nella nostra dignità umana. Le resistenze più forti vanno da una negazione massiccia a una attribuzione a cause esterne, come la secolarizzazione, la rivoluzione sessuale e la diffusione della pornografia nei media. Esistono forti resistenze, a livello di gerarchia, ad accettare nelle proprie fila la realtà dell’abuso in tutte le sue forme. Qui la reazione si orienta verso la salvaguardia dell’immagine istituzionale e dei propri membri, presunti autori di reato. Questo avviene attraverso atteggiamenti e posizioni difensive come, ad esempio, il riferirsi al fatto che la maggior parte degli abusi avviene nelle famiglie e che accade anche in tutte le altre realtà; il sospetto che i media abbiano l’intenzione di attaccare e distruggere la chiesa; oppure richieste di perdono senza assumere la responsabilità e senza rendere giustizia alle persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi. Altre forme di resistenza sono il sospetto o il timore di generalizzazioni del tipo “tutti i sacerdoti sono pedofili”. Come resistenza forte considero anche l’atteggiamento di evitare ogni contatto fisico e ogni forma di vicinanza con minori per prevenire sospetti e accuse.
Le resistenze sono espressioni e forme di una insufficiente presa di conoscenza della realtà degli abusi, delle conseguenze per le vittime e della dimensione sistemica del problema. Attraverso una sensibilizzazione e maggiore comprensione del fenomeno, si possono trasformare le resistenze in atteggiamenti che promuovono la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, in sintonia con i valori del vangelo, dei diritti umani e del bambino».
Che cosa è necessario per rompere il tabu dell’abuso?
«È necessario promuovere una cultura che facilita e favorisce la conversazione aperta e sincera sulla sessualità, in tutte le sue espressioni, con tutte le paure e i desideri, le sofferenze e le gioie a essa associate. Il presupposto è un’educazione sessuale responsabile e graduale, adeguata all’età, con un linguaggio comprensibile e rispettoso, insieme alla possibilità di dialogare, narrare e discutere tutti gli aspetti legati all’intimità e affettività, in un’atmosfera serena e rassicurante che sa mettere e far rispettare i limiti della propria sessualità per i valori a essa associati.
A mio avviso sono tre le condizioni per rompere il tabù degli abusi. La prima riguarda il riconoscimento della realtà degli abusi e delle persone, donne e uomini, di tutte le età, vittime di abusi e sopravvissuti. La seconda concerne l’assumere la responsabilità nei confronti delle persone vittime e sopravvissute di abusi e delle persone che hanno perpetuato abusi, assicurando procedure trasparenti, supporto psicologico, medico, legale e spirituale, e l’impegno di rendere giustizia a tutte le persone coinvolte. Infine, la terza condizione si riferisce alla sensibilizzazione attraverso l’informazione e la formazione del personale operante nell’ambito pastorale, educativo e spirituale a tutti i livelli e in tutte le aree ecclesiali. Oltre a un chiaro e deciso posizionamento ai vertici gerarchici, è parimenti richiesto e necessario un empowerment della base per creare insieme ambienti sicuri e protetti. Visto che si tratta di un problema sociale, è indispensabile la collaborazione con tutte le istituzioni e gli enti sociali per un cambiamento di cultura che mira alla tutela dei minori».
L’abuso è un fatto personale o vive in una dimensione più ampia?
«L’abuso non avviene mai come un fatto isolato tra due persone. È sempre coinvolto l’ambiente, anzitutto il sistema, che permette, favorisce, ignora, copre e che relativizza l’abuso attraverso concetti teologici, pastorali e spirituali distorti o idealizzati. Una gerarchia autoritaria o permissiva, un sistema di informazione e di comunicazione inefficace, l’assenza o trascuratezza di una formazione umana e la mancata supervisione del personale, l’istituzione creata come sistema chiuso senza possibilità di reclamo o di critica all’interno, la visione elitaria dell’istituzione con regole interne senza confronto dall’esterno, la sacralizzazione e l’idealizzazione del clero e dei religiosi, insieme a una netta distinzione tra clero e laici che impedisce ogni messa in discussione dell’autorità conferita con l’ordinazione o con la professione finale: sono tutti elementi che hanno contribuito, al di là degli elementi individuali legati alla persona abusante, a creare le condizioni per abusare. Ricordiamoci che alla base di ogni abuso c’è l’abuso di potere».
Qual è la “forza” della vulnerabilità? E come deve provocare la nostra cultura?
«Una società che tende a sopravvalutare la sicurezza, la salute, il piacere della vita come aspetti invulnerabili, e che tende a evitare o perfino a superare la sofferenza, il male, i limiti, rischia di perdere di vista o di negare la vulnerabilità. Il confronto con le vittime e i sopravvissuti agli abusi ha invece rimesso al centro l’aspetto della vulnerabilità. Parliamo di minori e di persone vulnerabili come possibili vittime di abuso. Il motu proprio di papa Francesco del 2019 definisce “persona vulnerabile” ‘ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa’.
Questa definizione, che corrisponde a quella di “vulnerabilità speciale” (Unesco 2005), si differenzia dalla “vulnerabilità radicale” in quanto indica una condizione umana comune.
La vulnerabilità radicale indica la possibilità di essere feriti. Pertanto, la vulnerabilità radicale indica la capacità di essere esposti agli altri, mentre essere esposti agli altri implica la possibilità di essere feriti.
Inoltre, la vulnerabilità indica sia la possibilità di essere feriti e di lasciarsi ferire, che la possibilità di ferire, ad esempio, nel difendermi per non essere ferito da un’altra persona.
Detto questo, possiamo affermare che la “forza” della vulnerabilità si radica nella mia consapevolezza e accettazione che sono vulnerabile. Chi è in contatto con la propria vulnerabilità è capace di riconoscere, cogliere e rispettare la vulnerabilità degli altri. La forza della vulnerabilità sta nella capacità di essere compassionevole che motiva ad agire. Il buon samaritano si ferma vedendo la persona ferita per terra, prova compassione, si avvicina, si prende cura di lei e la porta in un luogo sicuro dove coinvolge altri.
La vulnerabilità ci rende più umani e sociali, riconoscendo e considerando la nostra potenzialità di ferire. In questo, la vulnerabilità provoca la nostra società, nel piccolo e grande mondo, nel rispetto della dignità umana, nell’impegno di promuovere solidarietà, sussidiarietà e giustizia, nella convivenza interculturale e interreligiosa per il bene comune e per la pace, che rimane un impegno costante».
Quali sono gli ostacoli principali a un cambio di mentalità e di cultura?
«Al centro del confronto con gli abusi sono il potere e l’autorità. Il potere può essere usato in modo costruttivo e distruttivo. È necessario rileggere i concetti di potere e rivedere l’uso del potere indipendentemente dalla gerarchia e dal potere divino. Il potere è una capacità umana e sociale. Il rischio di usare il potere in modo distruttivo, sia nei riguardi delle persone sia nei riguardi dell’istituzione, viene rivelato da Gesù quando evidenzia l’atteggiamento di servizio alla luce del Regno di Dio e in contrasto all’uso distruttivo fatto dai potenti, e non solo, del mondo.
Per quanto riguarda l’autorità che deriva dall’incarico conferito e dal potere connesso, è bene ricordare le radici della parola “autorità”: “augere” significa far crescere, promuovere lo sviluppo dei talenti e delle capacità verso un fine, il bene della persona e il bene comune. Questo richiede l’esercizio responsabile dell’autorità.
Potere e autorità si definiscono in processi di comunicazione, nel dialogo continuo che include la critica e una costante verifica.
La mancanza di processi legati alla “correctio fraterna”, come strumento di verifica e di fare verità, ostacola un cambio di mentalità e di cultura. La loro presenza e attuazione favorisce invece un vero cambio di mentalità e di cultura, perché permettono di affrontare esperienze, situazioni e temi presenti. In un’atmosfera di fiducia, rispetto reciproco e onestà si può dialogare e comunicare alla ricerca della verità che ci rende liberi».
Qualche altro esempio?
«Tra gli ostacoli principali sono da elencare: la resistenza dei responsabili a prendere sul serio e in modo credibile la piaga dell’abuso e le sue conseguenze, sia per le persone vittime sia per tutta la chiesa. Le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, se non entrano nei programmi delle diocesi e delle varie realtà ecclesiali come punto di riferimento da attuare e se non emergono nelle relazioni annuali come momento di verifica della prassi concreta, ostacolano severamente un cambio di mentalità e di cultura. Non basta l’istituzione di servizi per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili senza essere inseriti in un discorso programmatico che rende trasparente l’impegno concreto e visibile verso queste persone.
Infine, come ostacoli principali, sono da nominare le istituzioni formative e i centri di studio. Nelle istituzioni formative sono fondamentali le indicazioni delle Linee guida per l’istruzione e per l’accompagnamento dei formandi. Di conseguenza, è necessario personale competente e qualificato.
Nei centri di studio ci vuole una rilettura di tutte le materie con un approccio intra- e interdisciplinare, che parte dalla sofferenza delle vittime».
Il clericalismo è un ostacolo per il riconoscimento e la denuncia delle forme di abuso e di violenza, che – lo sottolineiamo – sono dei crimini?
«Il clericalismo è un atteggiamento e un comportamento distorto, moralmente ed eticamente inaccettabile. L’esaltazione del ruolo di chierico (ma vale altrettanto per i membri di istituti religiosi, responsabili di associazioni e movimenti, e anche per i laici) deforma la coscienza e annebbia la percezione della realtà. Nonostante le qualità e le abilità pastorali, educative e spirituali della persona, l’agire è incentrato sulla manipolazione.
La manipolazione ha l’effetto di proteggere e difendere se stessi e il proprio ruolo. Spesso il clericalismo si esprime in un atteggiamento di superiorità, di supremazia, di importanza e di grandiosità, come si può esprimere anche in un atteggiamento esagerato di disponibilità, di umiltà e di adulazione per attirare l’attenzione e per essere ammirati. Ogni critica o accusa viene percepita come un disturbo narcisistico o addirittura come ferita narcisistica. Di conseguenza, non viene riconosciuta la realtà degli abusi e le denunce delle forme di abuso e di violenza vengono negate, banalizzate o attribuite ad altre realtà.
Le forme estreme di clericalismo manifestano un atteggiamento di inattaccabilità e di arroganza. L’idealizzazione del proprio ruolo, con distorsioni cognitive per presentare cause e ragioni per difendere se stessi o per minimizzare la realtà degli abusi nella chiesa, spostando il focus sugli abusi nelle famiglie e in altre realtà sociali, crea una forma di dissociazione che rafforza l’autostima e conferma l’immagine di se stessi».
Quali sono le prassi pastorali da rivedere per garantire la cura e la custodia dei più piccoli?
«Le Linee guida della Conferenza episcopale italiana offrono, insieme ai sussidi, un quadro di riferimento per una revisione della prassi pastorale. La tutela dei minori e delle persone vulnerabili dev’essere un filo conduttore nella definizione degli obiettivi pastorali, sia nella programmazione annuale sia nella relazione annuale. Le Linee guida devono diventare una prassi vissuta, che porta a un cambiamento di mentalità e di cultura.
A realizzare le Linee guida sono tutti coloro che si impegnano nella pastorale. Perciò è necessario informare e formare i responsabili e tutto il personale, inclusi i volontari. Già nella selezione del personale è importante fare riferimento alle Linee guida e al rispettivo codice di condotta. Nell’elaborazione dei programmi e dei progetti sono da integrare e da osservare le buone prassi per garantire la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. L’impegno e le procedure per l’intervento in casi di abuso, e per la prevenzione da abusi sessuali e da altre forme di violenza, devono essere verificate e aggiornate continuamente».
Quale ruolo gioca il linguaggio che usiamo?
«Particolare attenzione va rivolta ai linguaggi che usiamo nella vita quotidiana. La comunicazione comprende parole, espressioni emotive, atteggiamenti e comportamenti che possono contenere una valenza abusante. L’uso del linguaggio, la scelta delle parole, il modo di esprimersi, verbale o non-verbale, può diventare un abuso oppure prevenire un abuso. Il linguaggio può ferire e re-traumatizzare le persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi prima, durante e dopo la denuncia e le procedure legali. Il linguaggio può creare un’atmosfera di accoglienza, di comprensione, di rispetto, di trasparenza e di empowerment. In generale, il linguaggio può promuovere un cambiamento di mentalità e di cultura, che mette al centro la persona vittima e sopravvissuta e che favorisce la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, coinvolgendo sempre più responsabili ecclesiali, collaboratori e collaboratrici pastorali, educativi e spirituali insieme alla base.
Un aspetto importante riguarda l’uso del linguaggio nelle comunicazioni ufficiali della chiesa al riguardo della piaga degli abusi, nelle procedure di intervento, nei concetti di protezione e di prevenzione, nella liturgia, nell’annuncio della parola e nei programmi pastorali, educativi e spirituali».
L’ascolto delle persone vittime di abusi e il confronto con la realtà degli abusi come problema sociale ci interpellano sull’abc delle competenze di base necessarie. Possiamo indicarne alcune?
«Queste riguardano, in primo luogo, la capacità e qualità della relazione con se stessi, con gli altri, con la vita, con il mondo e con Dio.
Il rispetto reciproco richiede la competenza di riconoscerci come persone umane, dotate di una dignità indistruttibile e inalienabile attraverso l’essere creati a immagine di Dio prima ancora dei diritti umani.
La terza competenza tocca la responsabilità personale al riguardo del proprio agire e non agire, per proprio impegno o meno di sviluppare i talenti e le doti con le rispettive conseguenze per se stessi e per gli altri. Oltre alla responsabilità personale c’è anche la responsabilità sociale e morale, che riguarda il bene personale e il bene comune.
La quarta competenza riguarda la comunicazione, l’interagire con gli altri. Il dialogo ha un ruolo cruciale nell’incontro e nell’interazione con gli altri. Una comunicazione efficace richiede la capacità di esprimersi in modo semplice e comprensibile, la capacità di ascoltare e di comprendere, di capire l’altra persona. La condivisione, la capacità di vivere e lavorare insieme, di superare conflitti e di trovare consenso sono elementi essenziali della comunicazione come competenza indispensabile.
La quinta competenza concerne l’etica professionale. Ognuno ha un compito, un ruolo da svolgere, formale o informale. Il modo in cui viene vissuto e gestito il proprio ruolo è determinante per la collaborazione e per la trasparenza: ad esempio, se lo esercito in modo autentico, trasparente e responsabile. Più chiaramente sono definiti i compiti, le competenze e le responsabilità legate al ruolo, migliori sono la collaborazione e il risultato, e più facile è chiarire conflitti, superare crisi e rispettare i limiti individuali e quelli imposti dall’ambiente o dalla situazione.
Queste competenze di base sono cruciali, sia nel processo di recupero per le persone coinvolte nell’abuso sia nell’impegno per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, e anche nell’attuazione delle procedure durante la segnalazione, la denuncia, gli iter legali, integrativi e riabilitativi».
Il lavoro in rete è un punto di forza?
«Assolutamente sì! Il lavoro in rete è cruciale sia all’interno delle diverse realtà ecclesiali sia con le diverse realtà sociali. Sradicare la piaga dell’abuso richiede uno sforzo e un impegno comune, a cui papa Francesco esorta costantemente, invitando a una conversione di tutta la chiesa. A tutti i livelli della chiesa è auspicabile e necessario un lavoro in rete: a quelli gerarchici come a quelli di base. Lo scambio di esperienze, dei risultati di analisi, delle ricerche, degli esiti di progetti e programmi supervisionati e delle verifiche fatte regolarmente, e la condivisione dei problemi, delle sfide e delle situazioni difficili da gestire, sono un’opportunità per imparare l’uno dall’altro, per sostenersi e per camminare insieme verso una qualità pastorale, educativa e spirituale nell’ottica di una etica professionale.
Un approccio intra- e interdisciplinare richiede il confronto con le scienze umane e sociali partendo dall’opzione “victims first”, in linea con l’esperienza riportata dal popolo di Dio in varie forme letterarie dell’Antico Testamento e in sintonia con il messaggio e l’azione di Gesù (vedi il giudizio universale in Matteo 25). L’analisi e la riflessione scientifica parte dalle esperienze reali e concrete, portando a nuove teorie e conseguenze pratiche. In questa continua interazione il lavoro in rete è essenziale e fondamentale. In questo modo si evitano gli angoli morti e si amplia la visuale.
Inoltre, il lavoro in rete permette una diffusione più immediata delle informazioni, una collaborazione tempestiva e sinergetica, e un continuo confronto critico attraverso uno sguardo esterno e indipendente».
Che cosa è chiamata a fare ancora la chiesa?
«A livello internazionale, la chiesa è sicuramente tra le istituzioni più impegnate nella lotta contro l’abuso in tutte le sue forme. La chiesa si presenta con posizioni chiare e decise, sebbene queste non siano applicate in tutte le parti del mondo allo stesso modo. I sistemi con le loro istituzioni, gerarchie e strutture hanno il compito di garantire la stabilità, sia nel conservare gli obiettivi sia nel mantenere saldo l’insieme attraverso meccanismi di controllo e di autoprotezione. Si tratta di un compito primario ed essenziale per la vita e la sopravvivenza del sistema. Di conseguenza è molto difficile avviare dei processi di correzione e di cambiamento sistemico. È un processo che abbraccia diverse generazioni, richiedendo pazienza e perseveranza, continuità e fermezza nell’impegno di conversione e di trasformazione.
Concretamente la chiesa è chiamata a lavorare contemporaneamente e con ritmi differenti su diversi livelli: come chiesa universale in realtà culturali e politiche diverse, come chiesa locale nelle diverse realtà ecclesiali e come chiesa strutturata e differenziata in diverse espressioni istituzionali con rispettive autonomie di gestione e norme. L’ambiente sociale, culturale, storico, religioso, politico, economico e geografico insieme alle situazioni di crisi, conflitti e guerre richiede differenziazioni e considerazioni specifiche nell’implementare e applicare le Linee guida e le direttive canoniche emanate e prescritte».
Quali sono i rischi e le carenze principali che oggi si riscontrano?
«La chiesa, anche guardando alla chiesa in Italia, è chiamata a dimostrare serietà e impegno nell’applicazione delle Linee guida affinché diventino realtà, prassi vissuta. Il rischio è di fermarsi a comunicati ed eventi pubblici. Servono segnali chiari per quanto riguarda il riconoscimento della realtà della piaga degli abusi di ogni genere nella chiesa e l’assunzione della responsabilità per gli abusi perpetuati nella chiesa da parte di chierici, religiosi, religiose, responsabili di associazioni, comunità e di movimenti ecclesiali su minori e persone vulnerabili. Inoltre, ci vogliono chiari segnali di accoglienza verso le persone vittime di abusi e sopravvissute agli abusi, di un ascolto sincero e rispettoso e di un’offerta dei supporti psicologici, medici, legali e spirituali di cui hanno bisogno. C’è tutt’ora un grande bisogno, da parte delle persone colpite da abusi, di cogliere che i responsabili, vescovi, superiori e superiore di istituti religiosi, e altrettanto i responsabili di associazioni, comunità e movimenti ecclesiali, garantiscono la massima trasparenza nell’attuazione delle procedure coinvolgendo laici ed esperti esterni per evitare ogni insabbiamento e copertura o rischio di omertà.
Un’altra carenza da evidenziare riguarda l’accompagnamento e il supporto delle persone che hanno abusato durante e dopo l’attuazione delle procedure canoniche e civili. Le pene canoniche spesso non sono capite e sono difficilmente accettate dalle vittime che ritrovano, ad esempio, nelle celebrazioni liturgiche la persona che ha abusato, che è ancora in contatto con minori, che è trasferita in altri ambiti pastorali dove corre nuovamente il pericolo di ripetere l’abuso. Sono poche le strutture di cura che offrono un cammino terapeutico e di riabilitazione. Non tutte le persone che hanno abusato hanno la capacità di cambiare attraverso una terapia e necessitano ulteriori forme di monitoraggio e supervisione. Adeguati programmi sono ancora da studiare. Inoltre, sono necessari criteri e procedure da prendere in considerazione per valutare se la reintegrazione nel ministero pastorale è appropriata e responsabile.
Ci vogliono procedure in riferimento a situazioni dove è avvenuta un’accusa che si è rivelata falsa: come reagire a livello mediatico, come reagire nei confronti della persona accusata, come reagire nella realtà ecclesiale dove il presunto abusatore era in servizio, di quali forme di supporto ha bisogno la persona e la comunità e quali rituali possiamo adottare per promuovere una de-traumatizzazione ed elaborazione delle varie reazioni, a volte contradittorie nelle comunità, che portano a una riappacificazione e riconciliazione. Come gestire un sistema irritato, è una questione aperta».
Come può articolarsi meglio una nuova cultura della prevenzione?
«Al riguardo della tutela dei minori e delle persone vulnerabili esistono concetti di prevenzione e concetti di protezione. Per la prevenzione esistono sussidi sulle buone prassi da adattare alle diverse realtà ecclesiali e locali e da attuare con momenti di supervisione e di verifica come “work in progress”. I concetti di protezione si focalizzano sulla questione di come individuare gli errori in un’azione congiunta del livello sistemico e di quello individuale. Le organizzazioni di alta affidabilità adottano l’approccio “error friendly”, atteggiamento amichevole verso gli errori. Sono sensibili agli errori e su ciò che funziona e perché funziona. Alla base c’è la consapevolezza che gli errori o i malintesi più piccoli possono provocare conseguenze catastrofiche, vedi ad esempio: interventi di emergenza medica, sistemi di controllo. Oltre all’attenzione individuale è necessaria un’attenzione strutturale e sistematica per individuare e definire i rischi che favoriscono gli errori nella routine che potrebbero causare un danno nel sistema.
La nuova cultura della tutela e della prevenzione di abusi e altre forme di violenza mette al centro la dignità e il benessere dei minori e delle persone vulnerabili, ricordandoci il compito originale della nostra missione pastorale seguendo l’esempio di Gesù: mettendo i bambini e le persone ferite al centro con simpatia e compassione, offrendo loro l’amore misericordioso e salvifico di Dio, con l’effetto di coinvolgere gli altri presenti a cogliere la dinamica del Regno di Dio. Una caratteristica centrale della cultura della tutela e della prevenzione è la vigilanza: la vigilanza nell’offrire ambienti sicuri e persone affidabili ai minori e alle persone vulnerabili e la vigilanza di verificare e aggiornare continuamente i programmi e le iniziative di prevenzione e di protezione, coscienti che le persone che tendono ad abusare o che sfruttano l’occasione di abusare cercheranno sempre di trovare dei punti deboli o delle lacune nei programmi di prevenzione e nelle istituzioni che offrono loro un’opportunità di adescamento».
Paola Zampieri