Theology and University. Teologia e università. La ricorrenza degli 800 anni dell’Università di Padova

«In tutti i paesi, le università costituiscono la sede primaria della ricerca scientifica per il progresso delle conoscenze e della società». Il proemio di Veritatis gaudium (= VG 5), l’ultimo testo normativo del magistero sulle università e facoltà ecclesiastiche (2018), ribadisce il ruolo della ricerca, svolta però nell’ambiente dell’università. La ricorrenza degli 800 anni dell’Università di Padova è occasione propizia per riflettere sul rapporto tra teologia e università, paradossalmente proprio in un contesto, quello italiano, in cui dal 1873 le facoltà teologiche sono fuori dalle università statali, e in cui le otto facoltà teologiche extra Urbem non sono inserite in nessuna università. Il focus di questo numero di Studia patavina è dedicato a questa ricorrenza e alle varie implicazioni.

Nell’indirizzo di saluto (riportato dopo questo editoriale), la nuova rettrice dell’Università di Padova, Daniela Mapelli, menziona, come qualifiche proprie dell’Ateneo, due elementi: la «cifra fondante» della patavina libertas, e la collaborazione tra i saperi, per una «decifrazione costante e attenta» del mondo. Vale la pena sostare su questi due elementi.
Libertà e interazione dei saperi sono due condizioni fondamentali della ricerca, ben tematizzate anche da Veritatis gaudium quando parla di «libertà responsabile» e di «una forma “forte” di transdisciplinarità». Il tema della libertà della teologia, o meglio del rapporto intrigante tra teologia e potere, è al centro della riflessione di Massimo Faggioli: «Le sfide contro la libertà del pensare teologico non sono più soltanto e non più principalmente quelle che derivano dal controllo ecclesiastico o dal controllo politico.

Libertà e interazione dei saperi sono due condizioni fondamentali della ricerca.

Derivano dalla dislocazione del potere» (p. 30), tra cui domina quello tecnocratico, rilevante non solo dal punto di vista economico e politico, ma soprattutto antropologico-sociale. La dissociazione avvertita tra teologia accademica e chiesa istituzionale ha in America sostanzialmente due ragioni, diametralmente opposte: la reazione anti-liberale cattolica (con fronte comune contro papa Francesco) e la libertà del sapere teologico dalla chiesa istituzionale, in nome di una presunta scientificità. Tale dissociazione ha come conseguenza la perdita, per la teologia, del suo canone intellettuale e quindi la condanna alla sua irrilevanza. Si genera una teologia ideologica, incapace di interpretare i segni dei tempi. I due fronti opposti, che vogliono sottrarsi al “controllo ecclesiastico” (o per reazione o per libertà di pensiero), non sfuggono però al controllo di altri poteri, come quello politico ed economico (specie in America dove le università sono finanziate da sponsor privati).

In realtà, l’appartenenza a una tradizione di pensiero, quella cattolica, non rappresenta una privazione della libertà della teologia, ma la sua risorsa, il suo «canone intellettuale» (felice espressione di Faggioli), che in un certo senso la tutela di fronte ad altri poteri. Ovviamente il compito della razionalità credente non è quello di ripetere tale tradizione, ma quello di mostrare la sua forza generatrice di senso, mediante un lavoro di aggiornamento o rinnovamento (come ha fatto il Vaticano II). Vengono in mente le parole di Chesterton: «La chiesa cattolica possiede una mappa della mente che sembra la mappa di un labirinto, ma che in realtà è una guida per orientarsi nel labirinto»(1).
La finestra sul paesaggio teologico nord-americano evidenzia dinamiche proprie di quel contesto, ma con forti ripercussioni anche sul nostro mondo, soprattutto quando si parla di libertà dei saperi.

In Europa il destino della teologia accademica sembra diviso in due blocchi: quello mittel-europeo, dove la teologia è dentro le università statali (teologia più “scientifica”), e quello latino-mediterraneo dove la teologia è fuori dal contesto universitario statale (teologia più “ecclesiale”). Il primo rischia di essere irrilevante per la realtà pastorale (troppo accademico), il secondo per la realtà culturale (troppo pastorale).

La polarizzazione tra scientificità ed ecclesialità, tra Scilla e Cariddi, è in realtà costitutiva della teologia. La valenza “scientifica” (secondo l’ethos della ragione) della teologia sta nella sua ecclesialità: questo è il suo canone intellettuale, ovvero l’essere, in quanto logos, a servizio della verità che la chiesa custodisce, il vangelo, ben cosciente che tale verità non è una realtà astratta, anteriore o esterna alla storia. Il criterio «prioritario e permanente» della teologia è il kerygma (VG 4) o, meglio, la rivelazione di Dio in Gesù di Nazaret come buona notizia per il mondo, e il suo compito è quello, come ricorda Amoris laetitia, di «approfondire con libertà» le varie questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali di quel kerygma. Soprattutto in cambiamenti epocali. I teologi non sono coloro che navigano solo quando il mare è calmo e piatto, ma anche quando c’è temporale e mare mosso; il buon teologo «ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo» (VG 3). La fedeltà alla Parola, al di sotto della quale è lo stesso magistero, non significa vivere di rendita ma esplorare, per la storicità costitutiva della fede, le inattese vie di incontro tra kerygma e tutte le culture, anche con coraggio profetico.

La fedeltà alla Parola, al di sotto della quale è lo stesso magistero, non significa vivere di rendita ma esplorare, per la storicità costitutiva della fede, le inattese vie di incontro tra kerygma e tutte le culture, anche con coraggio profetico.

Lo stesso testo biblico ha una costituzione storico-ermeneutica: «la Bibbia domanda giustizia e discussione». Citando Lévinas, Silvano Petrosino mostra l’affinità tra il logos biblico e quello filosofico: la discussione, il confronto, il dialogo come atto della polis, atto politico e di giustizia. Avere un logos, sia biblico oppure filosofico, significa saper rendere ragione di quel logos, nel dibattito pubblico. Il fatto che il Dio biblico abbia privilegiato la parola, si sia definito come “Verbo”, attesta l’esaltazione della parola umana: «la sua incarnazione nelle parole degli uomini non appare più come il segno di un “adeguamento”, ma come l’evidenza di quella “esaltazione” che […] abilita ogni singolo uomo, a credere nel valore decisivo delle sue parole» (p. 48-49). Ma veniamo al secondo nodo cruciale, l’interazione dei saperi, su cui si sofferma il contributo di Roberto Tommasi.

La teologia ha «la responsabilità di interagire nello spazio pubblico della riflessione» (p. 32), mostrando la risorsa di senso che viene dal suo nucleo incandescente. Tale coscienza permette di superare due limiti: il ripiegamento dogmatico (“dogmatismo”) e intra-ecclesiale, e l’autoreferenzialità accademica, ovvero la distanza dai veri problemi dell’uomo e della società (pericolo che attraversa tutti i saperi universitari). A questi limiti, si aggiunge oggi quello dell’isolamento disciplinare, frutto della iper-specializzazione.

Questi limiti vengono arginati mediante la «cultura dell’incontro», (grazie alla inter-disciplinarità) che permette di cogliere «“ciò che è tessuto insieme”» (p. 39). Il contributo proprio del sapere sapienziale-teologico all’interno delle università va rinvenuto in tale direzione. Secondo J.H. Newman, la ragione che deriva dalla realtà concreta della rivelazione biblico-cristiana permette di orientare e creare connessioni tra i vari saperi, e quindi di formare: «Ho ipotizzato che un filosofo di oggi mi ponesse la domanda: “Perché non potete andare per la vostra strada, e lasciare andare noi per la nostra?”. Rispondo nel nome della scienza della religione: “Quando Newton potrà fare a meno del metafisico, allora potrete fare a meno di noi”»(2). E conclude il discorso III sul rapporto tra la teologia e le altre branche del sapere: «In poche parole, la verità religiosa non è soltanto una parte, ma una condizione del sapere generale. Eliminarla non è nient’altro che, se così si può dire, disfare la ragnatela dell’insegnamento universitario. Secondo il proverbio greco, significa togliere la primavera dall’anno; significa imitare l’assurdo procedere di quegli attori tragici che rappresentavano un dramma omettendone la parte principale»(3).

Il fatto che la teologia in Italia non compaia all’interno delle università non significa che sia un compartimento stagno, una torre d’avorio. Anzi, sono molteplici le iniziative di collaborazione. Il nome della presente rivista richiama una lunga e originaria collaborazione tra i due studia di Padova, Università e Seminario. Il prestigioso Istituto per la storia ecclesiastica padovana nasce all’insegna dello stretto rapporto tra i due enti. Nel 2011 è stata sottoscritta una convenzione tra l’Ateneo patavino e la Facoltà teologica del Triveneto per lo scambio di docenti e studenti e la realizzazione di convegni e seminari (la Facoltà ha convenzioni anche con altre università del Nord Est). È ormai decennale la ricerca comune sul rapporto tra scienza e fede, realizzata con il Dipartimento di Fisica e Astronomia, come pure la collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata – Master in Death Studies and the End of Life per temi antropologici ed etici rilevanti. Numerosi docenti dell’università hanno insegnato e continuano a insegnare nelle nostre istituzioni teologiche. Per secoli, diversi docenti degli ambienti ecclesiastici si sono distinti all’interno dell’Università di Padova. Nel focus sono evocate due belle testimonianze di una stagione feconda di scambi: quella di Antonino Poppi, docente di filosofia dal 1968 al 2003, e quella di Angelo Gambasin, per trent’anni docente di Storia contemporanea. Il binomio inscindibile di studio e ricerca ha contraddistinto la loro presenza all’Università, a testimonianza che è la ricerca, condotta con metodo e rigore intellettuale, a muovere in avanti il sapere, anche della fede.

Pensando all’evoluzione del contesto socio-religioso europeo, possiamo porre la domanda: che cosa ha da offrire la teologia? Che valore può avere un logos su Dio in un contesto in cui la domanda di Dio non è né importante né necessaria, in cui non “serve” Dio per una vita buona e bella. Secondo François Jullien il cristianesimo è una risorsa straordinaria anche senza «passare per la via della fede». Volentieri si attinge al suo bagaglio biblico, filosofico, artistico, ma la questione di Dio non sembra essere più intrecciata con la questione del senso. La teologia del passato recente (vedi l’impianto del Vaticano II) poggiava sostanzialmente su una correlazione antropologica tra verità di fede e mondo, soprattutto per mostrarne la sua universale accessibilità: tale corrispondenza è venuta meno, culturalmente e razionalmente. Che cosa può offrire allora la teologia cristiana, un deposito storico di belle verità? Eberhard Jüngel, uno dei teologi evangelici più significativi del nostro tempo, recentemente scomparso, alla domanda se l’università ha ancora bisogno della teologia, se lo stato, la chiesa, la società hanno ancora bisogno della teologia, rispose: «Ne abbiamo bisogno oggi più che mai. Senza teologia il mondo perderebbe un’intera dimensione e la fede orientata al pensiero, la fides quaerens intellectum, verrebbe sostituita dall’irrazionalità e dalla superstizione»(4).

La possibilità di dire “Dio” oggi, nell’antico continente, implica un approccio stilistico diverso: il passaggio dal Dio condizionato o abusato dai tanti perché o finalità, rinchiuso in prospettive, al Dio incondizionato o, come direbbe sempre Jüngel, dal Dio necessario al Dio «più che necessario». La rilevanza e significatività di Dio non è perché altrimenti crolla tutto, o perché è un postulato morale necessario, ma semplicemente perché «Dio è interessante di per sé», per la sua gratuità e bellezza: «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso» (Dei Verbum, n. 2), La cifra interpretativa di tale modo di pensare e dire il Dio biblico-cristiano è espressa bene dalla cifra dell’ospitalità (C. Theobald), che è la ripresentazione più convincente e credibile del vangelo, soprattutto nel vecchio continente.

L’apertura mondiale del cristianesimo può essere uno dei contributi più preziosi della teologia all’antico continente.

Un ultimo aspetto, la mondialità, elemento ormai imprescindibile anche per ogni sapere accademico. Al di fuori del vecchio continente dire Europa vuol dire cristianesimo. Europa significa storia di vecchi e nuovi colonialismi, mescolati alla diffusione del cristianesimo. La difficile e contrastante gestione europea del fenomeno migratorio, le posizioni rigide assunte da diversi paesi cristiani nei confronti dei profughi, sono spesso associate all’identità cristiana. Il “naufragio di civiltà” in Europa ha, forse, a che fare con il declino del cristianesimo. Penso che in tale contesto la teologia sia chiamata a mostrare il legame tra Occidente e cristianesimo e, in pari tempo, a de-occidentalizzare il cristianesimo, deseuropizzarlo, mostrando la capacità del vangelo (mediato da una cultura, fin dall’inizio) di ospitare e iscriversi in tutte le culture, dal di dentro. Tale apertura mondiale può essere uno dei contributi più preziosi della teologia all’antico continente, favorendo cosí innesti dalle ricchezze spirituali e culturali di altre realtà: «Dopo la sua lunga storia europea, la chiesa può riprendere piede nella e per l’Europa solo se è simultaneamente – in quanto chiesa europea al tempo stesso “modesta e fiera” e “fiera e modesta” – al servizio del vangelo in altri continenti»(5).

(1) G.K. Chesterton, Perché sono cattolico e altri scritti, Gribaudi, Milano 2002, 12.
(2) J.H. Newman, Scritti sull’università. Origine e sviluppo dell’università, Bompiani, Milano 2008, 129-131.
(3) Ibid., 161.
(4) E. Jüngel, Niente sconti sulla verità, in S. Muratore (cur.), Teologia e formazione. Problemi e prospettive, San Paolo, Milano 1996, 171.
(5) Ch. Theobald, La fede nell’attuale contesto europeo. Cristianesimo come stile, Queriniana, Brescia 2021, 266.

Andrea Toniolo
preside e docente di Teologia fondamentale
Facoltà teologica del Triveneto

La cifra fondante dell’Università: Universa universis patavina libertas

Ottocento anni fa un gruppo di studenti e professori – termine declinato solo al maschile, perché di soli uomini, allora, si parlava – lasciava Bologna, e il suo giovane ateneo, a causa de «le gravi offese ivi arrecate alla libertà accademica e per la inosservanza dei privilegi solennemente garantiti a docenti e discenti». Era il 1222 quando trovarono a Padova quella libertà tanto agognata, mettendo di fatto la prima pietra dell’Università che oggi sono chiamata, onore e onere, a guidare.
Una storia di libertà, quindi, è quella dell’Università di Padova. Tali premesse rappresentano un vanto, perché fanno dell’universa universis patavina libertas non solo un motto, bensí la cifra fondante dell’Ateneo, ma allo stesso tempo sono anche un impegno costante da onorare. Oggi, ottocento anni dopo, guardiamo ancora a quell’atto fondativo, a quella ricerca di un luogo migliore dove studiare e promuovere la scienza. È, in fondo, esempio ancora attuale di come vogliamo essere.
Non stiamo parlando, tuttavia, semplicemente della storia di un Ateneo. Ma ripercorriamo, in questo 2022, lo sviluppo di un territorio. L’Università, infatti, è strettamente legata ai luoghi (che nel corso dei secoli si sono moltiplicati) che la ospitano. Luogo di ascolto, e di confronto, l’Ateneo dialoga con istituzioni e società civile. Il legame fruttuoso con la Facoltà teologica del Triveneto ne è un esempio.
Tutte e tutti insieme, quindi, celebriamo questa ricorrenza. Dal nostro passato prenderemo spunto per affrontare i nodi futuri di un mondo in sempre piú veloce cambiamento, che chiede un’opera di decifrazione costante e attenta. Sfide come, esempio per tutte, la pandemia che tuttora fa sentire i suoi effetti. Con la fiducia incrollabile nella scienza, le sapremo vincere.

Daniela Mapelli
rettrice Università di Padova

Foto dal sito unipd.it

(Facoltà Teologica del Triveneto)