Chiesa e pandemia 3 – La cura degli ammalati nel contesto antropologico ed ecclesiale contemporaneo

Pubblichiamo una sintesi dell’intervento di Dario Vivian al seminario “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Un virus? Pandemia, fragilità e chiesa” (19 novembre 2021 – vai alla presentazione – vai alla sintesi dei contenuti) che ha coinvolto cinque istituzioni accademiche teologiche italiane (due Facoltà teologiche: del Triveneto e dell’Emilia Romagna; e tre Istituti superiori di Scienze religiose: di Padova, della Toscana e dell’Emilia) nella ricerca di elaborare, all’interno della vasta “letteratura Covid”, una riflessione sul modo cristiano di affrontare la fragilità e il dolore, che dal punto di vista teologico-pastorale riesca ad assumere il contesto, le prassi, le istanze e le sfide emerse per la chiesa in questo tempo.

L’antropologa Margaret Mead, a uno studente che le chiedeva quale fosse il primo segno della civiltà, rispose che è un femore rotto e poi guarito: non ci fosse stato qualcuno a prendersi cura, la persona sarebbe sicuramente morta a causa delle avversità atmosferiche o per l’aggressione delle fiere. La cura, pertanto, diviene indice di un passaggio di civiltà. E oggi?

L’esperienza della malattia

Si tratta di un’esperienza pan-umana e trans-culturale, che riguarda tutte e tutti in ogni epoca e in ogni luogo. E tuttavia si differenzia nella modalità di viverla, sia da parte dei soggetti colpiti, sia in coloro che se ne prendono cura. Ciò dipende dall’assetto delle società e dalle elaborazioni simbolico-culturali riguardanti il malato e le sue relazioni e la malattia e le sue interpretazioni. Alla malattia è inevitabilmente legata la sofferenza, frutto di più variabili. Dal momento che il corpo è più della fisicità, i processi che investono i malati sono di natura psico-somatica, ma non del singolo preso unicamente nella sua individualità. Questi processi infatti ricevono e trasmettono codici culturali, da prendere in considerazione e anche dai quali elaborare una distanza critica. Pensiamo a come forme di dolorismo abbiano segnato (e in parte purtroppo continuano a farlo) una certa tradizione cattolica non certo liberante e visioni teologiche nelle quali il dolore viene considerato salvifico in se stesso. L’esperienza della malattia, pertanto, viene vissuta a partire da significati soggettivi e insieme inter-soggettivi, che sono in circolarità tra loro. Tali significati possono emergere dalla narrazione di storie, che impediscono la privatizzazione dei vissuti e permettono una loro elaborazione. Entro un’esperienza, che rimane comunque destrutturante, è possibile gradatamente ricomporre un ordine di significati individuali e sociali; ma ciò richiede un quadro simbolico condiviso, tutt’altro che scontato.

La cura

L’attuale contesto culturale ha accentuato un processo di reificazione del corpo del malato, in un quadro dove la salute (sempre più affidata al privato) diviene merce e il paziente un cliente. Nei protocolli di cura, l’oggettività del dato biologico rischia di essere separata dalle relazioni umane e i corpi malati sono confinati in tempi e spazi altri rispetto a quelli della convivenza familiare e sociale. Non è questione di rimpiangere la civiltà contadina, in cui ci si ammalava e si moriva in casa, ma nemmeno di rinunciare a fare della malattia e della cura un’esperienza che rimane umana e può diventare umanizzante. Si tratta di vivere e accompagnare i passaggi, che possono avvenire nel singolo e in chi lo affianca: dalla negazione, alla reazione, all’accettazione. Su questo incidono non poco i messaggi implicitamente veicolati da chi ha a che fare con il malato, che in modo semplificato potremmo ricondurre a tre: Sei un inutile peso, meglio se muori; Sei un lavoro da svolgere, per questo ti sopporto; Sei un valore, mi prendo cura di te. Interessante rilevare, quando si parla di cura, come abbia un marcato profilo di genere: sono mani femminili che puliscono, voci femminili che rassicurano, occhi femminili che osservano e vigilano. Viene affidata e quindi se ne carica il peso prevalentemente sulle donne, con motivazioni più o meno esplicitate, sostenute da stereotipi sul femminile. Nel nostro contesto è peraltro avvenuto un passaggio, perché sempre più si tratta di donne straniere, alle quali si affidano malati e anziani; e il loro prendersi cura da noi spesso è a scapito delle relazioni familiari proprie.

L’icona biblica del buon samaritano

Dal brano evangelico si possono ricavare tre passaggi, che vedono come soggetto il corpo dello sventurato colpito dai briganti. In un primo momento si tratta di un corpo ferito, che rimanda alla malattia come specchio della condizione umana. Siamo interrogati da una realtà, la cui interpretazione oscilla tra due estremi. Da una parte una posizione che possiamo chiamare neo-pelagiana, per cui si ritiene che siamo sempre e comunque guaribili; dall’altra la prospettiva di un certo neo-agostinismo, per il quale l’essere umano è sempre e comunque malato. Entro questi estremi sta quel bisogno di salute-salvezza, che è il corrispettivo della buona notizia evangelica e tuttavia non la determina né l’esaurisce. In un secondo momento siamo di fronte al corpo soccorso, che richiede di andare oltre una visione eroica della cura. Se infatti il racconto mostra che qualcuno si fa carico del malcapitato e lo prende su di sé, il coinvolgimento che viene operato portandolo e affidandolo all’albergatore dice quanto sia necessario allargare il perimetro della cura e responsabilizzare il più possibile. Il lavoro di cura non ha bisogno di eroi solitari, ma di una solidarietà che con-sola e con-forta, cioè spartisce insieme la solitudine sollevandola e unisce le forze moltiplicandole. Nel terzo momento si intravvede il corpo guarito, entro una speranza affidabile suggerita dalla narrazione. L’orizzonte è quello di una guarigione vista come conversione, che fa uscire dall’indifferenza o insofferenza per la quale il corpo malato ci è estraneo, per approdare a una identificazione: il corpo malato è quello sociale ed ecclesiale, bisognoso di salvezza.

Ripresa ecclesiale

Solamente alcune suggestioni, per una ripresa ecclesiale dei temi trattati. C’è anzitutto un universo simbolico evangelico, nel quale ricomprendere la malattia e la conseguente cura. Collocarvi dentro l’esperienza del malato e di chi lo cura significa provare a intrecciare insieme le narrazioni bibliche con le narrazioni di vita: le une in chiave di annuncio pasquale, le altre di condivisione esistenziale. In questo modo si offre la possibilità di comprendere e vivere le singole storie come storia di salvezza, esperienza concreta della grazia a caro prezzo cuore dell’evangelo. C’è poi la dimensione sacramentale, che attiene al malato e alla sua cura. Ha come fonte la sacramentalità stessa di chi è malato, nell’identificazione forte proposta da Gesù di Nazareth: l’avete fatto a me (Mt 25,36). Culmine e fonte di detta sacramentalità è l’unzione dei malati, sacramento che andrebbe restituito alle battezzate e battezzati (come testimoniano le vicende storiche del sacramento stesso, visto che l’olio veniva dato per portarlo a casa e usarlo con i malati in famiglia) e non riservato ai presbiteri. Ma c’è una sacramentalità allargata, che richiede appunto una presa a carico da parte del soggetto ecclesiale nel suo insieme, corpo che nel mentre si fa tramite della guarigione si riconosce malato e guarito per dono di grazia. Ne scaturisce un’istanza teorico-pratica, che si fa carico concretamente del malato e insieme riflette sulla malattia. Si attiva così una carità che chiamiamo dossologica, in quanto celebra l’azione salvifica nella solidarietà gratuita; e una carità politica, che va alle cause della malattia e investe il corpo sociale ed ecclesiale in un’azione di conversione e di riforma.

Dario Vivian
docente di Teologia pastorale
Facoltà teologica del Triveneto

Respondent a questo contributo è stato Fabio Frigo (Istituto superiore di Scienze religiose di Padova) vai alla sintesi dell’intervento.

Tutti i contributi al seminario:
Chiesa e pandemia 1 – Corpo, fragilità e chiesa al tempo del coronavirus, di Angelo Biscardi
Chiesa e pandemia 2 – Forza nella debolezza: il nesso creazione/croce in Paolo (1-2Cor), di Maurizio Marcheselli
Chiesa e pandemia 3 – La cura degli ammalati nel contesto antropologico ed ecclesiale contemporaneo, di Dario Vivian
Chiesa e pandemia 4 – La pandemia e il sacramento dell’unzione degli infermi, di Fabio Frigo

Foto da Pixabay.com

(Facoltà Teologica del Triveneto)