Spazio di casa, tempo di chiesa

Padova, 14 dicembre 2021. Nello “spiazzamento” indotto dalla pandemia, si sono scoperti tempi e spazi “altri” e più aderenti alla vita delle persone dove essere e fare chiesa e dove pregare. La casa si è rivelata un luogo privilegiato, in questa dimensione che ha sovvertito abitudini e riti. Il tema è stato al centro della giornata di studio promossa dal biennio di licenza della Facoltà teologica del Triveneto, con il titolo “Spezzavano il pane nelle case (Atti 2,46)” Vivere lo spazio della casa come tempo di chiesa.

Il pane spezzato nelle case

Punto di partenza della riflessione è stato l’ascolto di una coppia, Massimo Zancan e Giorgia Caleari (vicentini, scout Agesci, 25 anni di matrimonio e tre figli). La voce di Massimo [Giorgia non ha potuto essere presente] ha riportato un percorso fatto durante il tempo di pandemia con un gruppo di famiglie. «L’esperienza della preghiera fatta nelle case – ha spiegato – ha in generale una intensità diversa, tanto più durante il lockdown quando tutta la famiglia era in casa e anche i bambini partecipavano e intervenivano. Certo, si perde la coralità del pregare, ad esempio i salmi, e anche il contatto diretto, fisico, con il libro delle Scritture, sostituito dal formato digitale; ma alcuni momenti, come lo spezzare insieme, ciascuno nella propria casa, il pane benedetto dal sacerdote in collegamento online restituisce una dimensione ecclesiale (il sentirsi veramente parte della chiesa) e liturgica (la ritualità conserva la sua valenza simbolica e allo stesso tempo è un gesto concreto, ripetuto in ogni famiglia). Quel pane vero, spezzato e mangiato in quel momento, sacralizzava la nostra casa e dava sapore e valore al pane mangiato nei giorni successivi. Ci ha fatto ritrovare senso e speranza».

La casa: luogo di spiritualità e di evangelizzazione

L’approfondimento teologico è stato proposto da p. Oliviero Svanera, docente della Facoltà teologica del Triveneto, che ha esordito citando il Vangelo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). «La casa è il luogo in cui si impara a condividere il nascere e il morire, la gioia e il dolore; a distinguere il bene dal male, ad ascoltare e a perdonare; in una parola, si impara ad amare – ha affermato – E attraverso la mediazione della famiglia come chiesa domestica la chiesa diventa famiglia di Dio, una casa di famiglia e delle famiglie».
La presenza di Dio in Gesù Cristo si è fatta casa, ha preso dimora fra noi, nelle case e lungo le strade. Gesù è presente continuamente nelle case e parla di case costruite sulla sabbia o sulla roccia, di porte aperte o chiuse, di banchetti di nozze, di lanterne accese, di donne che preparano il pranzo o spazzano la casa per cercare una moneta. Gesù ti incontra nella vita ordinaria, nei giorni di festa e nelle notti buie e tempestose. Nel quotidiano visitato dalla malattia e dal dolore guarisce la suocera di Pietro, risana il figlio del centurione, resuscita la figlia di Giairo e l’amico Lazzaro. «La casa non è solo il luogo della nostra esperienza quotidiana di vita, è il “luogo teologico” per una nuova esperienza, quella dell’incontro con Cristo. Il giardino del mondo è il luogo in cui vediamo operare la grazia».
Nel cristianesimo delle origini la casa è il luogo dove si origina la vita nuova: si annuncia il vangelo, si fa comunità, si coglie la pienezza del battesimo; è il luogo dove nasce la vita cristiana e dove si testimonia il messaggio evangelico nei segni della condivisione, dell’ospitalità e del servizio reciproco. Nella casa si impara la fede e la si custodisce.
Ma come integrare oggi dimensione familiare (accentuata nelle esperienze di liturgia domestica fatte nel lockdown) e dimensione ecclesiale? «Le ricerche condotte sulla pratica religiosa delle famiglie – ha spiegato Svanera – dicono a livello statistico che praticano con regolarità il culto domenicale prevalentemente coloro che l’hanno appreso dall’educazione della propria famiglia. Quindi per diventare capaci di celebrare il grande rito domenicale è necessario riscoprire, curare e riproporre i piccoli riti quotidiani; e viceversa, celebrare il rito domenicale con una cura e un’intensità di fede tali da rigenerare anche i riti quotidiani dell’amore familiare».
Entra qui in gioco il tema della ministerialità degli sposi e dei genitori in una sorta di “catechesi vivente”: «Nelle loro case i coniugi sono sacerdoti e la vita familiare è culto. Il compito educativo dei genitori è un vero ministero e consiste nel mediare il senso della fede attraverso i gesti quotidiani».
La famiglia, attraverso il linguaggio familiare, educa a ciò che è buono, vero e bello, alla fiducia nella vita, alla affidabilità delle persone, all’importanza della cura delle relazioni. La chiesa dona il linguaggio e la provocazione della missione. «La fede – ha concluso – non è una fede privatista o intimista e la chiesa educa a mettere in rete le famiglie e inserirle in un tessuto sociale e in una dinamica civile. Molte famiglie – pensiamo ad associazioni, movimenti, case-famiglia, gruppi familiari… – nella loro rete dicono il ruolo sociale della famiglia in una società complessa. È necessario che tutto ciò diventi respiro di comunione tra famiglia e comunità cristiana. Ne va della testimonianza cristiana oggi».

Tempo di opportunità

La “fatica” oltre alla gioia tra le mura domestiche è stata raccontata da Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, e dalla moglie Anna Chiara Gambini, genitori di cinque figli. Il segreto per superare la baraonda (e le furiose litigate) di tante persone chiuse in casa per tre mesi durante il lockdown è stata la ricerca di trasformare ogni tempo in un tempo nuovo. «Tutto educa e tutti educano, – affermano – quindi abbiamo cercato di valorizzare le opportunità nuove che avevamo per educare i nostri figli». Ecco allora che la “creatività missionaria” della famiglia si è messa in moto per rendere unici, ad esempio, i momenti della liturgia di Pasqua, dalla lavanda dei piedi al buio della notte di veglia. «Abbiamo colto l’opportunità di mostrare ai nostri figli che le chiese, sì, sono state chiuse, ma in quel tempo la chiesa ha continuato a vivere attivamente, sempre e comunque. Abbiamo avuto l’opportunità di rompere lo schema del “si è sempre fatto così”». Anche il rapporto con la tecnologia è stato addomesticato, «imparando che non è lei a gestire noi, ma noi a gestire lei e che la si può utilizzare in funzione missionaria: è uno strumento che non è nuovo (c’era anche prima) ma che finalmente cominciamo ad abitare».
Sul fronte delle relazioni, la pandemia ha svelato l’illusione che tutto nella vita, familiare e non, deva essere perfetto: «È l’imperfezione, invece, che fa nascere l’esperienza della grazia, la condivisione di un dono: un’esperienza di perdono, di riconciliazione, di amore».

Paola Zampieri

(Facoltà Teologica del Triveneto)