La rivista scientifica della Facoltà teologica del Triveneto ha un nuovo direttore: don Stefano Didonè. Trevigiano, classe 1975, succede a don Giuseppe Mazzocato che ha lasciato l’incarico dopo aver guidato Studia patavina dal 2011, anno in cui la Facoltà ha assunto dal Seminario di Padova la prestigiosa testata nata nel 1954 per iniziativa del vescovo Girolamo Bortignon e del teologo Luigi Sartori.
Don Stefano Didonè, quale eredità raccoglie?
«Un’eredità ricca e preziosa, perché oggi Studia patavina è, fra le riviste teologiche italiane, la terza più consultata e ha alle spalle una storia importante, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di dialogo tra le istituzioni culturali. Il mio predecessore, il prof. Giuseppe Mazzocato, ha svolto in questi anni un ottimo lavoro ideando i “Focus”, grazie ai quali la rivista offre ai suoi lettori il frutto del lavoro di ricerca che si svolge in Facoltà e negli Istituti superiori di Scienze religiose e Istituti teologici collegati in rete».
Come si colloca la rivista nel panorama culturale e teologico italiano?
«Fin dai suoi inizi, la rivista offre dei paper di qualità per tutti coloro che sono interessati ai temi della teologia, della filosofia e dell’attualità ecclesiale. Studia patavina è il biglietto da visita della Facoltà e si propone come uno strumento di formazione e aggiornamento più che come una rivista da archivio. È accreditata dal fatto che per ogni articolo la scientificità è garantita dalla procedura internazionale di double blind peer review. Ma il maggior punto di forza è lo scambio con 240 riviste di tutto il mondo che vanno ad arricchire il patrimonio della biblioteca della Facoltà».
Quali sono le potenzialità da sviluppare?
«Quando la rivista è nata, nel 1954, l’idea era di fare cultura in dialogo con l’Università di Padova. Nel tempo, quel dialogo si è progressivamente affievolito e penso sia importante recuperarlo. Con Padova, ma non solo. Nel Triveneto abbiamo molti atenei, da Verona a Trento, da Venezia a Bolzano e poi Trieste e Udine. Studia patavina potrebbe essere un buon laboratorio, lavorando sulle frontiere e incentivando la collaborazione con le varie realtà culturali del territorio. Mi piacerebbe inoltre che la rivista si consolidasse come il laboratorio in cui i docenti della Facoltà e degli Istituti a essa collegati si cimentano in lavori comuni, anche nella prospettiva di quella riscoperta del “pratico” come forma prima e insuperabile dell’umano coltivata in questi anni. Le potenzialità sono certamente collegate ai “Focus”, ma non solo. Studia patavina deve offrire strumenti utili per la ricerca e per la vita pastorale delle nostre chiese del Triveneto, senza rinunciare all’approfondimento specialistico».
E le difficoltà a cui far fronte?
«Le criticità non mancano mai, a partire da quelle economiche. Abbiamo dei costi di gestione elevati, per cui qualche “taglio” andrà fatto. Certamente, però, non taglieremo la qualità dei contenuti».
A quali sfide deve rispondere una rivista teologica?
«Come tutte le riviste scientifiche, la sua naturale vocazione è quella di esprimere i frutti della ricerca nel modo più rigoroso e serio possibile. Nel Prologo della costituzione Veritatis gaudium papa Francesco ha chiesto “un nuovo impulso alla ricerca scientifica” in vista di una “coraggiosa rivoluzione culturale”. Tutto ciò comporta “un innalzamento della qualità della ricerca scientifica”. Penso che una rivista teologica possa dare il suo contributo per questo obiettivo».
Papa Francesco sollecita le facoltà teologiche anche a coltivare la capacità di dialogare della teologia e dei teologi.
«Un tempo si faceva teologia più isolati gli uni dagli altri, mentre oggi il lavoro di squadra è decisivo. Il teologo non può restare chiuso in una torre d’avorio, ma deve mettere a servizio dei credenti e della chiesa la propria riflessione. Penso, quindi, a una rivista che sia rigorosa nei contenuti e snella nella forma, riuscendo a offrire in modo più immediato ai propri lettori contributi di qualità, anche riguardo ai temi dell’etica sociale ed economica, oggi tornati alla ribalta a motivo dell’emergenza pandemica di Covid-19».
Più ampiamente, qual è il ruolo della teologia nel contesto degli avvenimenti sociali ed ecclesiali del nostro tempo?
«La teologia è anzitutto approfondimento critico e sistematico della fede. E all’inizio della fede non c’è una dottrina, ma un evento: l’incontro con Cristo. In un volume recentemente pubblicato, Tomáš Halík afferma che con Dio bisogna avere pazienza. Si può dire che questo vale anche per la teologia e per chi fa teologia. È alla luce di questo asse centrale della riflessione teologica che prende avvio il discernimento evangelico del nostro tempo, che è in continua e veloce trasformazione».
Qual è il servizio, allora, per la chiesa che verrà?
«Il cristianesimo occidentale è entrato in una transizione epocale, che lascia appena intravvedere i contorni della chiesa che verrà. La teologia può offrire anche il servizio di aiutare a cogliere le ragioni profonde dei cambiamenti e può offrire delle chiavi interpretative dei fenomeni che stiamo vivendo. Nell’immediato futuro pesano le incertezze e le preoccupazioni per le conseguenze economico-sociali dell’attuale pandemia, ma la teologia può offrire quello sguardo e quel respiro più ampi, indispensabili per non perdere la speranza».
Tornando al Triveneto, come si svilupperà il dialogo della rivista con il contesto dell’attuale pluralismo culturale che caratterizza il nostro territorio?
«Il Triveneto ha conosciuto una profonda trasformazione in questi decenni, come hanno dimostrato pregevoli lavori sociologici pubblicati anche in Studia patavina. Il pluralismo culturale è ormai il nostro habitat naturale, ma per abitarlo occorre tenere vivo il dialogo e ogni dialogo presuppone un tavolo di incontro e di lavoro. Credere e pensare sono dimensioni che si intrecciano reciprocamente, per cui il dialogare presuppone la disponibilità a cercare di comprendere le ragioni degli altri. Come già accennato, mi piacerebbe riaprire anzitutto il dialogo con l’università e le istituzioni e associazioni culturali presenti nel territorio. Certamente il contesto pandemico non aiuta, ma noi lavoriamo per un progetto di lungo periodo».
Come mai il sapere teologico, e le riviste che lo veicolano, sono oggi così marginali nella società italiana e persino nella chiesa? È solo un problema di forma, di comunicazione, o anche di sostanza, di contenuti?
«La situazione che vediamo è frutto di una lunga vicenda, specie in Italia. È duro a morire il luogo comune secondo il quale la teologia non può presentarsi pubblicamente come una “scienza”, specie a livello universitario. Da una parte veniamo da una storia in cui si sono perse molte occasioni di dialogo tra la teologia e il mondo della cultura, a motivo di un reciproco arroccamento. Dall’altra, in ambito cattolico si è progressivamente affievolita la convinzione del valore della cultura per l’evangelizzazione. Il risultato è che le molte questioni teologiche che vengono continuamente affrontate nel dibattito pubblico vengono trattate da tutti tranne che da teologi di professione, se mi si può passare il termine».
La fede cristiana è ancora significativa, ha qualcosa da dire e da offrire al nostro tempo?
«È altresì vero che la teologia praticata nelle Facoltà e negli Istituti risulta marginale non solo rispetto al dibattito pubblico, ma anche rispetto all’azione pastorale della chiesa stessa. Fare cultura non significa solo un dialogo tra i saperi ai livelli più alti, ma riuscire a plasmare forme pratiche dell’agire. Ed è qui che ritengo si giochi la partita più importante, perché l’esperienza della fede cristiana ha al suo cuore un orizzonte di speranza che inquieta e interpella ancora gli uomini e le donne del nostro tempo, anche chi non crede».
Paola Zampieri