Chiesa e pandemia 2 – Forza nella debolezza: il nesso creazione/croce in Paolo (1-2Cor)

Pubblichiamo una sintesi dell’intervento di Maurizio Marcheselli al seminario “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Un virus? Pandemia, fragilità e chiesa” (19 novembre 2021 – vai alla presentazione  – vai alla sintesi dei contenuti ) che ha coinvolto cinque istituzioni accademiche teologiche italiane (due Facoltà teologiche: del Triveneto e dell’Emilia Romagna; e tre Istituti superiori di Scienze religiose: di Padova, della Toscana e dell’Emilia) nella ricerca di elaborare, all’interno della vasta “letteratura Covid”, una riflessione sul modo cristiano di affrontare la fragilità e il dolore, che dal punto di vista teologico-pastorale riesca ad assumere il contesto, le prassi, le istanze e le sfide emerse per la chiesa in questo tempo.

Come “reazione” alla prima parte della relazione di Angelo Biscardi (leggi) – dove troviamo questi titoli “La fragilità come apertura” e “Da punizione a condizione strutturale di fondo” – ho pensato di indagare un leitmotiv della riflessione antropologica paolina, attestato soprattutto nella corrispondenza corinzia.

1. Il campo semantico della debolezza nell’epistolario paolino

Quello della debolezza è un tema rilevante nelle lettere sicuramente autentiche, mentre risulta pressoché assente dalle lettere della tradizione paolina (2x), dove lo si incontra unicamente nelle pastorali in descrizioni concrete di uno stato di debolezza fisica, di poca salute. Una discreta serie di testi contiene un’esortazione a tener conto della debolezza altrui. Ciò che entra direttamente nell’orizzonte della nostra ricerca sono, però, i passi in cui l’Apostolo sviluppa una teologia della debolezza, a partire dall’esperienza della propria: la gran parte di questi testi si trova nelle due lettere ai Corinzi e precisamente in 2Cor 10-13 (14x) e 1Cor 1-4 (4x).

2. La dichiarazione «Quando sono debole…» (2Cor 12,10b) nel suo contesto immediato (2Cor 12,7b-10)

La dichiarazione del v 10b («quando infatti sono debole, allora sono forte») non può essere capita altrimenti, se non come ripresa di 12,9a («la potenza, infatti, si realizza nella debolezza»). Queste due frasi costituiscono ciascuna il punto di approdo di due brevi sviluppi che abbracciano rispettivamente i vv 7b-9a e i vv 9b-10. Occorre pertanto leggere il testo a partire dal v 7b («perciò»), perché è qui che comincia il segmento culminante nella dichiarazione del v 9a, successivamente ripresa nel v 10b.

2.1 I vv 7b-9a: la potenza si realizza nella debolezza
[7b] Perciò, affinché non mi esaltassi mi fu data una spina per la carne, un angelo di Satana, perché mi colpisse di modo che non mi esaltassi. [8] A questo proposito per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me, [9] ma mi ha detto: «A te basta la mia grazia, perché la potenza si realizza nella debolezza».
Tralascio, in questa sede, l’esame di cosa sia la «spina per la carne» (v 7b) e mi concentro sulla parola del Risorto che chiude il breve segmento.
La risposta che il Signore ha dato alla preghiera di Paolo (v 9a) è che la sua grazia, la sua potenza, gli basta. La seconda parte dell’oracolo («la potenza si realizza / si compie nella debolezza») chiarisce la prima («a te basta la mia grazia»): le due frasi sono collegate dalla particella causale gar («infatti, poiché»). La potenza che si realizza nella debolezza è frutto della grazia.
Il Risorto gli comunica che la spina non sarà tolta: Paolo continuerà a fare i conti con quell’impedimento che, qualunque cosa sia, limita la sua attività e costituisce umanamente un impiccio. Egli non si vedrà tolto questo elemento di disturbo: non la sua eliminazione è la via di Dio, ma il fatto che in quella spina la grazia agisca ugualmente.
In verità, è del tutto impreciso dire che la grazia agisce lo stesso, anche in presenza di quella spina: la frase introdotta da «infatti» proclama piuttosto che la potenza/grazia si compie unicamente nella debolezza. La spina non è soltanto la circostanza «nonostante la quale» la grazia agisce, ma è la condicio sine qua non perché la potenza si compia.

2.2 I vv 9b-10: quando, infatti, sono debole, allora sono forte
[9b] Molto volentieri, dunque, mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, perché fissi la tenda su di me la potenza del Cristo. [10] Perciò mi compiaccio delle debolezze – gli oltraggi, le necessità, le persecuzioni e angustie – per Cristo: quando, infatti, sono debole, allora sono forte.
In ragione del principio enunciato dal Risorto in 12,9a, Paolo conclude in 12,9b che allora (oun) egli stravolentieri – piuttosto che continuare a chiedere di esserne liberato – si vanterà delle sue debolezze, affinché la potenza di Cristo prenda dimora in lui. La «potenza di Cristo» è la potenza che si è manifestata nel Risorto, la potenza sovrana dispiegata dal Padre nella risurrezione del Cristo e che è stata comunicata a Gesù risorto. Essa si stabilisce nella debolezza: questo è avvenuto già in Gesù (cf. 1Cor 1,10-25). La potenza di Dio non alloggia nella forza, non abita là dove l’uomo è forte secondo i parametri del mondo: la potenza di Dio è potenza che si dispiega nell’uomo crocifisso (a partire da Gesù crocifisso).
Al v 10a abbiamo un elenco formato da cinque sostantivi. Quando Paolo si trova in queste situazioni di debolezza sperimenta la forza di Dio: questa forza è, infatti, forza che rialza il debole. Qualcuno potrebbe pensare che l’annuncio si sarebbe fatto molto meglio in una condizione di potere, di accoglienza strepitosa e senza riserve, di abbondanza di disponibilità economiche; invece, Paolo confessa di compiacersi di queste espressioni di debolezza.
Al v 10b risuona la dichiarazione apicale: «quando, infatti, sono debole, allora sono forte». Questa debolezza, da un lato, segna ineludibilmente ogni vicenda umana; dall’altro, Paolo la sperimenta concretamente, in molteplici forme, nell’esercizio del suo ministero apostolico. Sono le innumerevoli manifestazioni del limite da cui egli è (pesantemente) condizionato; limiti esterni che provocano pesanti ripercussioni nel suo intimo. Questa forza è la potenza di Dio che ha agito nell’uomo della croce (Gesù crocifisso), per dargli vita. Quando Paolo accoglie la debolezza in relazione a Cristo (hyper Christou), allora sperimenta la potenza di Dio, che si dispiega esclusivamente nella debolezza.

3. Il fondamento cristologico della teologia paolina della debolezza (1Cor 1,10-31)

Ecco una sintesi di quanto si ricava dall’esegesi di questo passo.
a) L’uomo ha fallito nelle sue risorse di pensiero perché altrimenti avrebbe riconosciuto Dio nel mondo creato, cosa che invece non è accaduta.
b) «La croce» non è un simbolo culturale generale: è la croce di Cristo. Paolo ha di mira un evento storico preciso e riflette su ciò che esso significa. Non sta ragionando sulla sofferenza umana in senso generale.
c) Livello cristologico: il crocifisso è la forma della salvezza.
Un uomo crocifisso è quanto di più impotente (e folle) si possa pensare, secondo la criteriologia del mondo. Eppure, la salvezza di Dio ha agito nell’uomo Gesù crocifisso: infatti, lo ha risuscitato. La potenza di Dio ha, pertanto, la forma della potenza che alza l’umiliato, che fa vivere il morto, che dà forza allo schiacciato.
d) Livello antropologico: solo l’uomo crocifisso può ricevere la salvezza.
Per salvarsi, l’uomo deve riconoscere la propria radicale impotenza e insipienza per accettare una salvezza che può solo soccorrerlo dall’esterno. La croce (cioè, il crocifisso) dice che la salvezza opera unicamente laddove – a giudizio del mondo – c’è debolezza e stoltezza. Solo riconoscendosi deboli e stolti si riceve salvezza. Non si tratta di diventare deboli e stolti nel senso di rinunciare a uno status precedentemente posseduto: si tratta piuttosto di riconoscere e accettare la condizione umana.
e) La condizione di limite, di debolezza, di infermità è condizione strutturale dell’essere umano: essa non ha nulla a che vedere con il peccato, discende piuttosto dal dato della creazione. La croce, in questi testi paolini, non è altro che la manifestazione estrema del limite quale condizione che contraddistingue intrinsecamente l’essere umano. E che costituisce l’unica condizione in cui si esplica la potenza di Dio. La theologia crucis paolina non ha nulla a che vedere con l’esaltazione della sofferenza, essa è piuttosto la celebrazione del limite come condizione strutturale dell’essere umano, a partire dalla quale unicamente gli è possibile sperimentare la salvezza, che non può essere altro che qualcosa di ricevuto dall’esterno.

Maurizio Marcheselli
docente di Sacra Scrittura
Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna

Tutti i contributi al seminario:
Chiesa e pandemia 1 – Corpo, fragilità e chiesa al tempo del coronavirus, di Angelo Biscardi
Chiesa e pandemia 2 – Forza nella debolezza: il nesso creazione/croce in Paolo (1-2Cor), di Maurizio Marcheselli
Chiesa e pandemia 3 – La cura degli ammalati nel contesto antropologico ed ecclesiale contemporaneo, di Dario Vivian
Chiesa e pandemia 4 – La pandemia e il sacramento dell’unzione degli infermi, di Fabio Frigo

Foto da Pixabay.com

(Facoltà Teologica del Triveneto)