La lezione di Zygmunt Bauman a Padova

Zygmunt Bauman«L’individuo cambia più volte identità nel corso della sua vita. Possiamo chiederci se ciò porta ansia o se rinnovare l’identità è liberatorio. I miei contemporanei non erano preoccupati per questo motivo; oggi, invece, la comunità ha perso molte componenti: le relazioni si sono indebolite. “Chi sono io?” è la domanda ricorrente. L’io è lasciato ai soggetti stessi, chiamati a costruire il loro posto nella società, a determinarsi da soli».

È questo il filo conduttore del pensiero espresso da Zygmunt Bauman, il famoso sociologo e filosofo polacco, in un incontro pubblico svoltosi a Padova. «Vi sono situazioni di 30-40 anni fa, in cui si evidenziano non il concetto d’identità, ma d’identificazione, che implica un processo costante. Sartre ci ha insegnato a organizzare le nostre vite, a costruire da soli il progetto per tutta la vita. Una volta fatto, il processo è semplice. Per ogni classe c’è un “codice inserito” da imparare a memoria.  Ma le cose cambiano continuamente: oggi è diverso da ieri, si deve parlare di ridentificazione creata, definita e ricreata. Ecco perché io parlo di società liquida. I liquidi cambiano forma in continuazione, fuoriescono, assumono la forma dei contenitori in cui vengono contenuti. È la condizione stessa di bisogno a portare alla ridentificazione. Certo, non è semplice prevedere il futuro: molti degli eventi degli ultimi cento anni erano assolutamente inattesi e non aspettati; pensiamo – per tutti – agli atti terroristici. Ciò comporta un grande senso di ignoranza, non limitato a questi grandi eventi».

 

Problematico, di questi tempi, anche il mondo relazionale. «Le relazioni pure non hanno alcun tipo di vincolo e hanno creato la forte ansia che conosciamoprosegue Bauman -. Per costruirle occorrono due persone, per infrangerle una sola. È un’altra incertezza, una forte sensazione di impotenza, poiché non abbiamo potere e forza per cambiare l’evoluzione».

Fondamentali per la storia umana sono libertà e sicurezza: un binomio estremamente difficile da conciliare. «In questo periodo accettiamo tutto pur di ottenere sicurezza. Sarà una restrizione permanente della libertà? Non lo sappiamo, ci troviamo nello stadio in cui il dramma è stato identificato, ma appare arduo far riconciliare i due estremi. Freud, nel 1929, diceva che la civiltà è uno scambio tra sicurezza e libertà. Se c’è impotenza e ignoranza, ne consegue umiliazione: l’incertezza crea l’umiliazione del non sentirsi all’altezza».

La sicurezza è diventata la parola base della nostra lingua pubblica e conosciamo tutti i partiti  che promettono (ma non offrono) sicurezza. «I governi non riescono a mantenere questa promessa di sicurezza, con la separazione sempre più netta tra il potere, cioè la capacità di decidere le cose, e la politica, ovvero la capacità di decidere quali siano le cose da fare – è il commento del sociologo -. La situazione è cambiata con la globalizzazione. Il potere è un avamposto nel ciber spazio, in uno spazio globale, uno spazio di flussi. Oggi si devono risolvere problemi non causati dalle stesse persone, ma che vengono dal ciber spazio: il problema dell’inquinamento è globale, ma è il sindaco di quella città che deve provvedere alla pulizia dell’acqua e dell’aria del suo municipio.

Così c’è la mobilitazione di massa (l’immigrazione), ma è la società locale che vi deve provvedere. Tra il potere “in alto”, che può fare tutto ciò che vuole, e la cittadinanza esiste una rimarcata discrepanza. Gli stati non hanno abbastanza potere per decidere della sicurezza dei cittadini. Chi ci offrirà questa sicurezza? Quando ero giovane il problema era cosa fare; oggi il problema è chi farà qualcosa».

 

E poi c’è il tema della soggettivazione della vita. «Questa individualizzazione dell’io come si lega alla società? La nazione moderna è nata grazie alla cultura. Ora non è più la cultura lo strumento di ridefinizione della società. La cultura non rimandava a un concetto: portava il sapere a un livello di umanità, acculturando. Non è più così. Adesso essa è diventata collezione di norme cogenti e di offerte che rapidamente cambiano; non vi è continuità. Siamo passati dall’idea di comunità all’idea di network.       

L’appartenenza è un’esigenza fondamentale dell’essere umano – aggiunge Bauman – in cui l’idea soggiacente è quella di unicità e capacità di inventiva. Tempo fa ciò, quando era valido il concetto di identificazione, era legato all’appartenenza alla comunità, oggi è legato al network, a una comunità che si crea da noi. Ma la comunità è diversa dal network. Quanto questo è creato dalla connessione e dalla disconnessione – tagliamo un’amicizia, chiudiamo una chat con estrema facilità e senza impegno “umano” -, tanto la comunità era un luogo sicuro in cui vivere. Il network è insicuro: nella vita reale per chiudere una relazione occorre dire bugie, sarà inevitabile la reazione dell’altro, si procurerà sofferenza. Chiuderla nel network è molto facile, praticamente senza conseguenze».

L’uomo moderno, dunque, è un ostaggio? Gli rimane solo il ricordo di quando era tutto “solido”, di quando i legami erano veri? «Gramsci diceva che viviamo in un periodo di interregnum. A distanza di tanto tempo da Gramsci, osserviamo che nuovi modi di agire, più adeguati, non sono ancora stati creati. Forse non ci aspetta liquidità nel futuro, ma un altro periodo di interregnum. Non è chiaro dove andare, ma la domanda che interpella tutti deve essere “chi lo farà?”. La responsabilità di ciò che facciamo in ultima istanza è nostra. Abbiamo ciascuno una responsabilità in più, quella per gli altri: per la loro identità, la loro umanità, la loro felicità. La responsabilità sta in noi. Nella nostra vita abbiamo un compito – conclude – e dobbiamo svolgerlo, a prescindere da quello che fanno gli altri. E anche se gli altri non lo fanno».

Cinzia Agostini

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